venerdì 28 dicembre 2007

LA QUESTIONE MERIDIONALE L´ASSETTO ECONOMICO E SOCIALE LA GESTIONE AMMINISTRATIVA di G. Verga

All'atto dell'unificazione italiana, tra il 1860 e il 1861 era generale la convinzione che tra le due maggiori parti del paese - l'area padana e l'area meridionale - le differenze di vita fossero dovute unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. La linea politica del governo si ispirava ad un orientamento accentratore, soprattutto perchè si era diffuso un giudizio estremamente negativo sulla possibilità che le regioni meridionali fossero in grado di essere gestite da amministrazioni locali. Negli anni, perciò, i governi che si susseguirono non ottennero altro che allontanare maggiormente la possibilità di realizzare una vera Unità Nazionale, in quanto la politica adottata non era espressione del consenso unanime del popolo della nazione, ma solo di una fazione di esso. I problemi del Sud, come la mancanza di infrastrutture e servizi, furono affrontati sulla carta e superficialmente, con misure deboli ed inefficaci. L'imposizione di tasse e di misure drastiche in nome del bene della nazione furono dunque fattori che accrebbero l'ostilità nei confronti delle forze istituzionali. Uno dei meridionalisti più accesi, il Salvemini, sentenziò : "[Dunque], l'intervento negli affari meridionali degli "Italiani delle altre province", ovvero l'unità amministrativa e militare, assicura l'impunità agli oppressori, legalizza l'oppressione, impedisce ogni reazione legale degli oppressi e schiaccia ogni reazione illegale; le masse meridionali abbandonate a se stesse, cioè liberate dalla camicia di forza dell'unità, e autonome in una costituzione federale, troverebbero legalmente o illegalmente un rimedio." (1900 - Gaetano Salvemini, La Questione Meridionale e il Federalismo, in "Movimento socialista e questione meridionale", Feltrinelli, Milano, 1973 p. 179). Il governo aveva bisogno di effettuare forti prelievi fiscali per sanare le perdite delle guerre d’indipendenza e per affrontare le spese enormi "d’impianto" del nuovo stato; Le casse vuote dello stato esigevano senza discriminazione le tasse, in ugual misura da regioni ricche e povere, cosicchè il governo italiano al Sud in veste di "strozzino e affamatore" suscitava nostalgici rimpianti per l’amministrazione borbonica che non pretendeva molto. L’impopolarità contro lo Stato cresceva con l’imposizione del servizio militare obbligatorio che danneggiava il bilancio delle famiglie a cui venivano sottratte braccia per lavorare . Il Minghetti avrebbe voluto applicare un sistema amministrativo decentrato di tipo inglese tenendo conto delle discrepanti condizioni delle varie zone, ma prevalsero i criteri del sistema accentrato in uso già nella Francia napoleonica. La scelta del'Unità, dopo dieci anni, volle dire d’altra parte, per il Mezzogiorno, la sospensione di fatto del regime costituzionale, l’uso dell’esercito per la lotta contro il brigantaggio, che vide impegnati fino a 120mila uomini, con la restrizione delle libertà personali, mediante la larga pratica del domicilio coatto, su semplice deliberazione delle autorità amministrative, e il frequente ricorso allo stato d’assedio. Il governo poté così portare a compimento con razionale e conseguente determinazione il progetto di unificazione, attraverso l’uso decisivo della “forza fisica”. Va sempre tenuto presente che lo Stato liberale fu, di seguito, almeno nel Mezzogiorno, assai poco liberale, quanto alla sua effettività come “Stato di diritto”, nell’imparzialità della pubblica amministrazione e nell’applicazione giudiziaria delle leggi, causa non secondaria dell’intrinseca debolezza storica che avrebbe in seguito dimostrata. Servì piuttosto «da garanzia e difesa di un vasto insieme di situazioni parassitarie e di privilegio», e precisamente su questa base si ebbe l’adesione al nuovo Stato di buona parte della classe dirigente meridionale. Il che fece dichiarare, nel 1876, al Sonnino, uomo non sospetto di eccessivo democratismo, «che la Sicilia, lasciata a se stessa, avrebbe trovato il rimedio alle proprie condizioni di arretratezza, rovesciando l’oppressione sociale e civile attraverso una soluzione rivoluzionaria, mentre lo Stato italiano aveva finito per fare da sostegno alle forze peggiori del latifondismo e dello sfruttamento». L’ECONOMIA Nei primi anni di vita unitaria, uno dei problemi che furono affrontati consisteva nel come realizzare l'obiettivo a lungo termine dell'incremento economico del paese e la rete di servizi pubblici indispensabile al progresso civile. Il Reddito Nazionale non era tale da consentire un prelievo fiscale idoneo alle necessità di uno stato in formazione, così, per risanare il bilancio statale, si pensò ad una complessa opera di rafforzamento delle finanze. Le direttive della politica economica del governo nazionale si svolsero sostanzialmente in tre direzioni: l'abbattimento delle barriere protezionistiche, che avevano chiuso la maggior parte degli stati italiani all'influenza delle economie europee più avanzate; la creazione di un organico sistema nazionale di comunicazioni e di servizi e quindi all'avvio dell'unificazione del mercato interno; espropriazione e vendita delle terre già appartenenti agli enti ecclesiastici e ripartizione dei residui demani comunali, per circa un milione di ettari. Lo sviluppo economico, che sulla carta si ispirava ai principi della trasformazione capitalistica ed all'incremento produttivo dell'agricoltura, fu profondamente diverso al Nord e al Sud; la previsione che il cambiamento di regime avrebbe permesso al Mezzogiorno di superare il divario preesistente rispetto al più progredito Nord non si avverò. Nel meridione, Il tessuto sociale sul quale si innestavano gli effetti della politica del governo nazionale era lacerato da una sbagliata gestione delle risorse naturali e da un'abominevole amministrazione del potere. I grandi proprietari terrieri si limitavano a trarre rendite e affitti dai loro latifondi e si rifiutavano, per mentalità e per mancanza di grandi capitali, di introdurre quelle innovazioni che sarebbero state indispensabili alla nascita di un’agricoltura moderna; essi si limitavano a coltivare il grano perché questa coltura non richiedeva grossi investimenti. Sul piano sociale, il forte malcontento dei contadini, provocato dall'oppressione che i ceti possidenti esercitavano sui contadini poveri e le condizioni di forte arretratezza delle regioni del sud, sfociava in rivolte sociali in cui alla protesta sociale si era aggiunto o sovrapposto un orientamento politicamente reazionario. Così era avvenuto nel 1799, allorchè l'insurrezione Sanfedista aveva travolto la repubblica giacobina e durante il periodo Napoleonico, allorchè nelle campagne calabresi si era diffusa la guerriglia antifrancese. Dal punto di vista economico, i pareri sono discordi: Secondo Leopoldo Franchetti, la miserevole situazione del sud è da ricondursi alla mancanza di capitali, notando però la contraddizione fra questa scarsezza di risorse da impiegarsi nell'agricoltura ed il fatto che nel 1865, quando la Banca Nazionale emise, sul mercato delle province meridionali, 12500 delle sue azioni per un prezzo complessivo di 16 milioni di lire, le sottoscrizioni raggiunsero in un solo giorno il valore complessivo di 53 milioni. Purtroppo, la maggior parte dei proprietari di terra preferisce impiegare le maggiori o minori disponibilità di capitali, piuttosto che nei miglioramenti agricoli, nei prestiti usurari ai loro coloni, i quali arrivano alla vigilia dell'inverno senza alcuna scorta per provvedere alla propria alimentazione e per assicurarsi il grano per la semina, e sono costretti a ricorrere al credito dello stesso proprietario o di qualche usuraio di professione, pagando un interesse che è per lo più del 16 per cento in sette od otto mesi( 1963 - Gino Luzzatto, L'economia italiana dal 1861 al 1894, Einaudi, Torino, 1974 p. 9. La soluzione della vendita dei beni ecclesiastici e la ripartizione dei demani comunali avrebbero dovuto, secondo le intenzioni del governo, migliorare la distribuzione della proprietà fondiaria, incrementare la piccola e media proprietà e colpire il latifondo sottraendo le terre ecclesiastiche e comunali ad una cultura estensiva ed arretrata. In realtà, al contrario di questa piccola riforma fondiaria si ottenne che il latifondo meridionale e siciliano ne uscì rinvigorito, anzi impinguato dalle operazioni di grandi proprietari terrieri i quali acquistarono a basso prezzo le terre espropriate. La crescita economica dell’Italia del Nord andò a discapito dell’Italia del Sud. IL BRIGANTAGGIO Il distacco tra Nord e Sud si era già manifestato in forma gravissima sin dai primi giorni dell'Unità, con un fenomeno che investi l'intero Meridione tra il 1861 ed 1865: Il brigantaggio. Le sue cause erano antiche e profonde, ma la delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall'accentramento amministrativo poi erano i motivi più recenti di questo fenomeno. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all'asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica dei vecchi padroni. L'aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei disordini che in pochi mesi assunsero le proporzioni di una vera e guerriglia. In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell'estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni. All'inizio essi combatterono per due scopi l'uno in contrasto con l'altro: • ottenere la riforma agraria che Garibaldi non aveva concesso deludendo le loro speranze; • impedire la realizzazione dell'Unità d'Italia per far tornare i Borboni. A creare questa confusione agivano numerosi fattori, tutti comprensibili: • l'odio per i nuovi proprietari, sfruttatori di manodopera come e più dei precedenti e per giunta venuti dal basso e quindi ancora più inaccettabili dell'aristocrazia, "voluta dal destino e da Dio"; • l'incomprensione per le leggi del nuovo Stato, che apparivano non "italiane",come dicevano i garibaldini, ma "piemontesi", cioè altrettanto straniere quanto lo erano apparse quelle austriache ai Lombardi; • la protezione concessa da ecclesiastici e aristocratici, necessaria ai briganti per sopravvivere, ma condizionata dalla fèdeltà al re di Napoli in esilio; • Infine che lo Stato italiano "laico e liberale", fosse in realtà uno stato ateo, cioè uno stato senza-dio, pronto a distruggere le chiese e a eliminare i preti offendendo la profonda religiosità delle masse contadine meridionali. I briganti, quindi, non furono "criminali comuni", come pensò la maggioranza degli italiani, ma un esercito di ribelli che, all'infuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell'ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Questa sfiducia in ogni forma di protesta e di lotta organizzata fu il nucleo della vera "Questione meridionale". L'esteso fenomeno del brigantaggio ne fu solo una drammatica conseguenza. Lo Stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue manifestazioni ampie, durò oltre quattro anni: alle truppe già stanziate nel Sud al comando del generale Cialdini, il governo ne aggiunse altre, cosicché, nel 1863 ben 120.900 soldati erano impegnati nella lotta al brigantaggio: quasi la metà dell'esercito italiano. Nello stesso anno venne dichiarata la legge marziale: processi sommari fucilazioni, incendi e saccheggi furono gli strumenti impiegati da Cialdini nell'opera di repressione, non solo contro i briganti, ma contro tutti i loro fiancheggiatori. Migliaia di morti in scontri armati e altrettante pene capitali o alla prigione a vita furono il tragico bilancio finale. Nel 1865 il brigantaggio era stato praticamente sconfitto. Lo stato aveva vinto la sua guerra, ma compiendo proprio gli errori che Cavour aveva cercato di scongiurare. Dopo la repressione e la legge marziale, la frattura tra il Sud ed il resto dell'Italia non fece che approfondirsi. LA QUESTIONE MERIDIONALE E IL CINEMA La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche. Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni. "I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce" Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni. L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività. Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città. Scheda tecnica del film: Francesco Rosi "Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105') Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella. Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale

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