venerdì 28 dicembre 2007

LA QUESTIONE MERIDIONALE L´ASSETTO ECONOMICO E SOCIALE LA GESTIONE AMMINISTRATIVA di G. Verga

All'atto dell'unificazione italiana, tra il 1860 e il 1861 era generale la convinzione che tra le due maggiori parti del paese - l'area padana e l'area meridionale - le differenze di vita fossero dovute unicamente alle più sfortunate vicende politiche del Mezzogiorno. La linea politica del governo si ispirava ad un orientamento accentratore, soprattutto perchè si era diffuso un giudizio estremamente negativo sulla possibilità che le regioni meridionali fossero in grado di essere gestite da amministrazioni locali. Negli anni, perciò, i governi che si susseguirono non ottennero altro che allontanare maggiormente la possibilità di realizzare una vera Unità Nazionale, in quanto la politica adottata non era espressione del consenso unanime del popolo della nazione, ma solo di una fazione di esso. I problemi del Sud, come la mancanza di infrastrutture e servizi, furono affrontati sulla carta e superficialmente, con misure deboli ed inefficaci. L'imposizione di tasse e di misure drastiche in nome del bene della nazione furono dunque fattori che accrebbero l'ostilità nei confronti delle forze istituzionali. Uno dei meridionalisti più accesi, il Salvemini, sentenziò : "[Dunque], l'intervento negli affari meridionali degli "Italiani delle altre province", ovvero l'unità amministrativa e militare, assicura l'impunità agli oppressori, legalizza l'oppressione, impedisce ogni reazione legale degli oppressi e schiaccia ogni reazione illegale; le masse meridionali abbandonate a se stesse, cioè liberate dalla camicia di forza dell'unità, e autonome in una costituzione federale, troverebbero legalmente o illegalmente un rimedio." (1900 - Gaetano Salvemini, La Questione Meridionale e il Federalismo, in "Movimento socialista e questione meridionale", Feltrinelli, Milano, 1973 p. 179). Il governo aveva bisogno di effettuare forti prelievi fiscali per sanare le perdite delle guerre d’indipendenza e per affrontare le spese enormi "d’impianto" del nuovo stato; Le casse vuote dello stato esigevano senza discriminazione le tasse, in ugual misura da regioni ricche e povere, cosicchè il governo italiano al Sud in veste di "strozzino e affamatore" suscitava nostalgici rimpianti per l’amministrazione borbonica che non pretendeva molto. L’impopolarità contro lo Stato cresceva con l’imposizione del servizio militare obbligatorio che danneggiava il bilancio delle famiglie a cui venivano sottratte braccia per lavorare . Il Minghetti avrebbe voluto applicare un sistema amministrativo decentrato di tipo inglese tenendo conto delle discrepanti condizioni delle varie zone, ma prevalsero i criteri del sistema accentrato in uso già nella Francia napoleonica. La scelta del'Unità, dopo dieci anni, volle dire d’altra parte, per il Mezzogiorno, la sospensione di fatto del regime costituzionale, l’uso dell’esercito per la lotta contro il brigantaggio, che vide impegnati fino a 120mila uomini, con la restrizione delle libertà personali, mediante la larga pratica del domicilio coatto, su semplice deliberazione delle autorità amministrative, e il frequente ricorso allo stato d’assedio. Il governo poté così portare a compimento con razionale e conseguente determinazione il progetto di unificazione, attraverso l’uso decisivo della “forza fisica”. Va sempre tenuto presente che lo Stato liberale fu, di seguito, almeno nel Mezzogiorno, assai poco liberale, quanto alla sua effettività come “Stato di diritto”, nell’imparzialità della pubblica amministrazione e nell’applicazione giudiziaria delle leggi, causa non secondaria dell’intrinseca debolezza storica che avrebbe in seguito dimostrata. Servì piuttosto «da garanzia e difesa di un vasto insieme di situazioni parassitarie e di privilegio», e precisamente su questa base si ebbe l’adesione al nuovo Stato di buona parte della classe dirigente meridionale. Il che fece dichiarare, nel 1876, al Sonnino, uomo non sospetto di eccessivo democratismo, «che la Sicilia, lasciata a se stessa, avrebbe trovato il rimedio alle proprie condizioni di arretratezza, rovesciando l’oppressione sociale e civile attraverso una soluzione rivoluzionaria, mentre lo Stato italiano aveva finito per fare da sostegno alle forze peggiori del latifondismo e dello sfruttamento». L’ECONOMIA Nei primi anni di vita unitaria, uno dei problemi che furono affrontati consisteva nel come realizzare l'obiettivo a lungo termine dell'incremento economico del paese e la rete di servizi pubblici indispensabile al progresso civile. Il Reddito Nazionale non era tale da consentire un prelievo fiscale idoneo alle necessità di uno stato in formazione, così, per risanare il bilancio statale, si pensò ad una complessa opera di rafforzamento delle finanze. Le direttive della politica economica del governo nazionale si svolsero sostanzialmente in tre direzioni: l'abbattimento delle barriere protezionistiche, che avevano chiuso la maggior parte degli stati italiani all'influenza delle economie europee più avanzate; la creazione di un organico sistema nazionale di comunicazioni e di servizi e quindi all'avvio dell'unificazione del mercato interno; espropriazione e vendita delle terre già appartenenti agli enti ecclesiastici e ripartizione dei residui demani comunali, per circa un milione di ettari. Lo sviluppo economico, che sulla carta si ispirava ai principi della trasformazione capitalistica ed all'incremento produttivo dell'agricoltura, fu profondamente diverso al Nord e al Sud; la previsione che il cambiamento di regime avrebbe permesso al Mezzogiorno di superare il divario preesistente rispetto al più progredito Nord non si avverò. Nel meridione, Il tessuto sociale sul quale si innestavano gli effetti della politica del governo nazionale era lacerato da una sbagliata gestione delle risorse naturali e da un'abominevole amministrazione del potere. I grandi proprietari terrieri si limitavano a trarre rendite e affitti dai loro latifondi e si rifiutavano, per mentalità e per mancanza di grandi capitali, di introdurre quelle innovazioni che sarebbero state indispensabili alla nascita di un’agricoltura moderna; essi si limitavano a coltivare il grano perché questa coltura non richiedeva grossi investimenti. Sul piano sociale, il forte malcontento dei contadini, provocato dall'oppressione che i ceti possidenti esercitavano sui contadini poveri e le condizioni di forte arretratezza delle regioni del sud, sfociava in rivolte sociali in cui alla protesta sociale si era aggiunto o sovrapposto un orientamento politicamente reazionario. Così era avvenuto nel 1799, allorchè l'insurrezione Sanfedista aveva travolto la repubblica giacobina e durante il periodo Napoleonico, allorchè nelle campagne calabresi si era diffusa la guerriglia antifrancese. Dal punto di vista economico, i pareri sono discordi: Secondo Leopoldo Franchetti, la miserevole situazione del sud è da ricondursi alla mancanza di capitali, notando però la contraddizione fra questa scarsezza di risorse da impiegarsi nell'agricoltura ed il fatto che nel 1865, quando la Banca Nazionale emise, sul mercato delle province meridionali, 12500 delle sue azioni per un prezzo complessivo di 16 milioni di lire, le sottoscrizioni raggiunsero in un solo giorno il valore complessivo di 53 milioni. Purtroppo, la maggior parte dei proprietari di terra preferisce impiegare le maggiori o minori disponibilità di capitali, piuttosto che nei miglioramenti agricoli, nei prestiti usurari ai loro coloni, i quali arrivano alla vigilia dell'inverno senza alcuna scorta per provvedere alla propria alimentazione e per assicurarsi il grano per la semina, e sono costretti a ricorrere al credito dello stesso proprietario o di qualche usuraio di professione, pagando un interesse che è per lo più del 16 per cento in sette od otto mesi( 1963 - Gino Luzzatto, L'economia italiana dal 1861 al 1894, Einaudi, Torino, 1974 p. 9. La soluzione della vendita dei beni ecclesiastici e la ripartizione dei demani comunali avrebbero dovuto, secondo le intenzioni del governo, migliorare la distribuzione della proprietà fondiaria, incrementare la piccola e media proprietà e colpire il latifondo sottraendo le terre ecclesiastiche e comunali ad una cultura estensiva ed arretrata. In realtà, al contrario di questa piccola riforma fondiaria si ottenne che il latifondo meridionale e siciliano ne uscì rinvigorito, anzi impinguato dalle operazioni di grandi proprietari terrieri i quali acquistarono a basso prezzo le terre espropriate. La crescita economica dell’Italia del Nord andò a discapito dell’Italia del Sud. IL BRIGANTAGGIO Il distacco tra Nord e Sud si era già manifestato in forma gravissima sin dai primi giorni dell'Unità, con un fenomeno che investi l'intero Meridione tra il 1861 ed 1865: Il brigantaggio. Le sue cause erano antiche e profonde, ma la delusione creata dal passaggio garibaldino prima e dall'accentramento amministrativo poi erano i motivi più recenti di questo fenomeno. La situazione si aggravò subito dopo la vendita all'asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla nuova borghesia rurale che si stava rivelando ancora più avara e tirannica dei vecchi padroni. L'aggravarsi delle condizioni dei contadini causò la ripresa dei disordini che in pochi mesi assunsero le proporzioni di una vera e guerriglia. In Calabria, Puglia, Campania, Basilicata, bande armate di briganti iniziarono nell'estate del 1861 a rapinare, uccidere, sequestrare, incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni. All'inizio essi combatterono per due scopi l'uno in contrasto con l'altro: • ottenere la riforma agraria che Garibaldi non aveva concesso deludendo le loro speranze; • impedire la realizzazione dell'Unità d'Italia per far tornare i Borboni. A creare questa confusione agivano numerosi fattori, tutti comprensibili: • l'odio per i nuovi proprietari, sfruttatori di manodopera come e più dei precedenti e per giunta venuti dal basso e quindi ancora più inaccettabili dell'aristocrazia, "voluta dal destino e da Dio"; • l'incomprensione per le leggi del nuovo Stato, che apparivano non "italiane",come dicevano i garibaldini, ma "piemontesi", cioè altrettanto straniere quanto lo erano apparse quelle austriache ai Lombardi; • la protezione concessa da ecclesiastici e aristocratici, necessaria ai briganti per sopravvivere, ma condizionata dalla fèdeltà al re di Napoli in esilio; • Infine che lo Stato italiano "laico e liberale", fosse in realtà uno stato ateo, cioè uno stato senza-dio, pronto a distruggere le chiese e a eliminare i preti offendendo la profonda religiosità delle masse contadine meridionali. I briganti, quindi, non furono "criminali comuni", come pensò la maggioranza degli italiani, ma un esercito di ribelli che, all'infuori della violenza privata, non conoscevano altra forma di lotta. Tenuti per secoli nell'ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e non riuscivano ad immaginare alcuna prospettiva di cambiamento attraverso i mezzi legali. Questa sfiducia in ogni forma di protesta e di lotta organizzata fu il nucleo della vera "Questione meridionale". L'esteso fenomeno del brigantaggio ne fu solo una drammatica conseguenza. Lo Stato italiano rispose con una vera e propria guerra a questa rivolta sociale che, nelle sue manifestazioni ampie, durò oltre quattro anni: alle truppe già stanziate nel Sud al comando del generale Cialdini, il governo ne aggiunse altre, cosicché, nel 1863 ben 120.900 soldati erano impegnati nella lotta al brigantaggio: quasi la metà dell'esercito italiano. Nello stesso anno venne dichiarata la legge marziale: processi sommari fucilazioni, incendi e saccheggi furono gli strumenti impiegati da Cialdini nell'opera di repressione, non solo contro i briganti, ma contro tutti i loro fiancheggiatori. Migliaia di morti in scontri armati e altrettante pene capitali o alla prigione a vita furono il tragico bilancio finale. Nel 1865 il brigantaggio era stato praticamente sconfitto. Lo stato aveva vinto la sua guerra, ma compiendo proprio gli errori che Cavour aveva cercato di scongiurare. Dopo la repressione e la legge marziale, la frattura tra il Sud ed il resto dell'Italia non fece che approfondirsi. LA QUESTIONE MERIDIONALE E IL CINEMA La questione meridionale è un argomento che affonda le sue radici nella storia del paese, ma è anche una materia profondamente attuale dal cui nucleo continuano a sorgere nuove e vecchie problematiche. Per il progetto è stato selezionato uno spezzone audio tratto da "le mani sulla città", come esempio cinematografico in cui la realtà del meridione viene rappresentata nella sua integrità, senza mistificazioni. "I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce" Con questa didascalia (che accompagna le immagini iniziali del film) la sapiente regia di F.Rosi ci introduce nella Napoli della fine degli anni '50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di ideologia comunista (De Vita) e di uno spietato impresario edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e bramoso di grandi speculazioni. L'ambientazione riproduce il clima di quegli anni, le tensioni e le lotte politiche tra una classe dirigente, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l'opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia i crimini compiuti ai danni della collettività. Nello spezzone selezionato abbiamo l'incontro-scontro tra le due figure centrali del film, il cui pensiero e la cui individualità vengono obiettivamente colte dalla camera. Da una parte, abbiamo il costruttore Nottola che, sullo sfondo di una città ridotta in macerie, vanta l'ambizione di un ammodernamento della città e dice che costruire nuovi palazzi porterà una speranza alle persone che vivono in condizioni di indigenza e miseria, ma in realtà nasconde solo la brama di successo e ricchezza personali. Dall'altra, abbiamo la figura del consigliere De Vita che si staglia nella sua purezza, sullo sfondo di una candida parete bianca e lancia il suo grido di condanna contro l'ipocrisia di Nottola e di chi come lui rappresenta la parte marcia della politica e auspica l'avvento di un cambiamento rigeneratore per le sorti della città. Scheda tecnica del film: Francesco Rosi "Le mani sulla città" (Italia, 1963, b/n - 105') Sceneggiatura: F. Rosi, R. La Capria, Enzo Provenzale, ed E. Forcella. Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo d'Alessandro, Carlo Fermariello, Marcello Cannavale

giovedì 27 dicembre 2007

IN MEMORIA DI S.M.FRANCESCO II

Il 27 dicembre del 1894 si spegneva nel suo triste esilio di Arco, allora appartenente all'Austria, il Re Francesco II di Borbone, ultimo sovrano della nostra devastata Patria Napolitana. Con lui se ne andava l'ultimo degno rappresentante di uno stato florido, pacifico e glorioso. Il Re di una Nazione collocata al terzo posto mondiale senza aver mai mosso guerra ad alcuno e sempre rispettosa della dignità dei popoli e delle loro culture. Di tutto si è detto ed ancora si dice su Francesco II. Ma chi ancora oggi continua ad alimentare storielle infamanti ed aneddoti calunniosi non offende solamente la memoria di un uomo dignitoso e giusto, ma tutti coloro che si sono riconosciuti per secoli in una dinastia amata ed illuminata, promotrice di grandi opere e del migliore sistema sociale che la storia italica abbia mai conosciuto. Chi offende loro denigra i nostri padri, offende tutti noi. Francesco II con la stessa serenità e rassegnazione con cui visse così morì. Morì in esilio, da solo, quasi in povertà, lontano da quella sua Napoli che tanto amava, lontano da quella Patria che, con le lacrime ed il sangue dei suoi figli, pagava le pene di una devastante conquista. Rese la sua anima a Dio santamente, lasciando in eredità a tutti noi la speranza in un futuro migliore.
Diramiamo una bellissima nota della compatriota Mariolina Spataro, gentilmente inviataci dai compatrioti calabresi che, come già comunicato, sono anche i promotori di una messa in suffragio del nostro amato Sovrano che si terrà giovedì 27 dicembre 2007, alle ore 11, nella chiesa Madre di Siderno (RC), in Piazza Portosalvo.
Cap. Alessandro Romano



Unitevi intorno al trono dei vostri padri. Che l’oblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza.

Francesco II



Francesco II di Borbone, l’ultimo Re di Napoli
Ritratto di un sovrano che amò sinceramente il suo popolo

di
Mariolina Spadaro
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27 dicembre 1894: l’ultimo sovrano delle Due Sicilie si congeda dalla scena del mondo in punta di piedi, con lo stesso stile sobrio e dignitoso con cui aveva vissuto. Nel suo testamento, Francesco II di Borbone aveva scritto: “Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”. La Discussione di Napoli, nel riportarne la notizia, commentava: “Con l’anima serena dell’uomo giusto, con gli occhi estaticamente rivolti alla visione di quel sereno cielo che lo vide nascere, è morto il Re adorato, alle porte dell’Italia, in un modesto albergo, situato in una regione non sua...”. Matilde Serao, in un articolo apparso sul Mattino del 29 dicembre, scrisse: “Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone”. Ad Arco di Trento, l’ultimo discendente di una delle monarchie più potenti d’Europa aveva vissuto gli ultimi anni della sua breve vita, in perfetta umiltà e dignitoso anonimato. Fu l’ultimo Re, disse l’Italia intera; ed il cordoglio per la morte prematura di un sovrano tanto nobile, leale e generoso, fu sincero, quanto tardivo il riconoscimento del suo alto profilo morale. Ma chi era davvero Francesco II? La storia ci ha abituati a conoscerlo come “Franceschiello”, un epiteto dispregiativo per sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato: l’ultimo Re delle Due Sicilie era stato capace, in meno di un anno, di perdere regno e ricchezze, combattendo dalla parte sbagliata. Perché è sempre sbagliato stare dalla parte di chi perde, quando la storia la scrivono i vincitori. E Francesco, pur consapevole della fine imminente, non si era voluto piegare a nessun compromesso. Perciò, aveva perso. Non aveva cercato facili alleanze: avrebbe potuto salvare almeno se stesso, conservare le fortune personali, ereditate dagli avi o, persino, usare quelle ricchezze (che nessun altro stato italiano poteva vantare di possedere in tale quantità) per corrompere quanti, nell’ora più difficile del Regno, preferirono abdicare alla propria dignità, barattando la patria napoletana con l’oro piemontese e massonico. Invece, non fece nulla di tutto ciò. Non si oppose alla storia, ma non abdicò mai al ruolo che la storia gli aveva assegnato: morì da Re, assolvendo fino alla fine il suo compito, con coraggio e dignità. 25 novembre 2007: sono passati centotredici anni. Nella Chiesa di Santa Chiara a Napoli ascolto l’omelia di un giovane frate francescano (è davvero molto bravo), nel giorno in cui si celebra la festa di Cristo Re. Non ho scelto di proposito di andare ad ascoltare la Messa domenicale a Santa Chiara, mi ci sono trovata per caso, perché un’amica mi ha chiesto di accompagnarla a vedere i presepi a San Gregorio Armeno. C’è molta gente per strada, quasi non si cammina; decidiamo perciò di andare prima a Messa, in attesa che la folla diminuisca. E’ quasi mezzogiorno; proviamo ad entrare al Gesù Nuovo, ma occorre aspettare un’ora per la celebrazione. “Ripieghiamo”, allora, su Santa Chiara: un frate, all’ambone, sta provando con i fedeli i canti per la Messa, che sarà celebrata tra pochi minuti. Decidiamo di restare e troviamo posto nei primi banchi, sul lato destro della basilica. All’omelia il giovane frate evidenzia la contraddizione tra il Vangelo di oggi, che presenta la scena della Crocifissione, e la regalità di Cristo, che l’odierna festività intende esaltare. Cosa c’entra con la regalità e con Cristo, Re dell’universo ed immagine visibile di Dio, che ha creato tutte le cose, in cielo e sulla terra, Troni, Dominazioni, Principati e Potestà, ecc. ecc., quella scena che riproduce il momento meno esaltante della vita di Gesù, la sua morte sulla croce? Ma la contraddizione, spiega il frate, è soltanto apparente: Cristo che muore sulla croce è il vero Re, perché sposa per sempre il suo popolo, lo abbraccia, lo “comprehendit” e in quell’abbraccio “si comprende” egli stesso, ossia trova senso e compimento la sua stessa vita. E’ per questo motivo che Cristo è Re, non già perché domina. Non c’entrano nulla le ricchezze, il potere, l’essere “i primi della classe”. Il modello cristiano di regalità non si basa sulla “competitività”, ma sulla “comprensione”: cum – prehendere”; altrimenti non avrebbe senso la Crocifissione e Cristo sarebbe un perdente. E noi non dovremmo essere qui. Ho un sussulto nel rendermi conto di essere seduta proprio a fianco alla cappella dei Borbone, dove Francesco II riposa per sempre. E’ solo un caso? Avevo, appena ieri, cominciato a scrivere queste pagine sull’ultimo sovrano delle Due Sicilie, di cui mi ha sempre colpito la profonda religiosità, la sua fede di cristiano perfetto che, con grande eroismo, ha saputo affrontare le prove durissime cui la vita lo ha sottoposto. Chi l’ha detto che i Re devono evocare immagini di grandiosità e di potenza? Francesco II è stato un re dolente: la nascita lo privò immediatamente della madre, Maria Cristina di Savoia; le sue nozze con Maria Sofia di Baviera furono turbate dalla malattia e, quindi, dall’improvvisa morte del padre, Ferdinando II; in poco più di un anno di regno perse trono ed averi personali e non vide mai crescere l’unica figlia avuta dal quel matrimonio, che morì di pochi mesi; visse la maggior parte della sua vita in esilio e morì a soli 57 anni. Eppure, niente di tutto ciò poté mai scalfire il suo animo di credente e di Re: un re dolente, certo; ma quanta dignità e quanto eroismo in quel dolore! Le parole dell’omelia, una delle migliori che mi è mai capitato di ascoltare, si intrecciano con i miei pensieri; sono parole forti, che scuotono ed inducono a riflettere sulla storia, sui popoli, sui Re. “Non ci può essere mai una supina rassegnazione agli eventi, occorre capire il senso degli accadimenti, il senso della propria vita. Contemplare: questo è il verbo giusto. Mentre Gesù muore sulla croce, il popolo “contemplava”, dice il Vangelo di Luca, non semplicemente “stava a vedere” ( si sa: le traduzioni dal greco o dal latino non rendono quasi mai il senso autentico che le parole esprimono nella lingua originaria). Contemplare, ossia cercare di capire quello che sta accadendo: il senso della vita, il senso della storia. “Alcuni si spingono molto lontano per capire il senso della propria vita, fino in Tibet ad esempio; ma è qui ed ora che ciascuno di noi ha un senso, perché ognuno è un tassello preciso nel grande mosaico del mondo, ognuno ha il proprio posto nella storia.” Francesco II, la storia e la fede, la regalità e Cristo, l’umiltà e la povertà di San Francesco, la competitività e la comprensione: tutto sembra intrecciarsi e convergere in unità, indicando che il vero significato dell’essere Re è nell’abbraccio di Cristo che muore crocifisso, in mezzo a due ladroni. Per paradossale che possa sembrare, è proprio allora che Cristo mostra la sua regalità, esaltata dal ladrone, che proprio a causa di quell’abbraccio lo riconosce, sentendosi da Lui “comprehensum”, sposato da quel sovrano che lo ama fino a sacrificare se stesso. E Francesco II quale modello di regalità ha abbracciato? Quello della competizione o quello della comprensione? E’ stato un sovrano ambizioso, che ha pensato ad accrescere il proprio potere oppure è stato un sovrano che ha anteposto ai suoi interessi personali l’amore per il suo popolo?
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La breve, ma intensa, vita di soldato e di re, di Francesco II di Borbone appare, in verità, come un continuo e cosciente conformarsi all’unico modello di regalità che la sua profonda religiosità cristiana poteva proporgli di imitare. Il “Re” Francesco II si sentiva, ed era effettivamente, “sposo” del suo popolo, che amò fino alla fine della sua vita, ben oltre la perdita del trono e la fine del Regno. E’ lecito dubitare dell’amore dei sovrani per i loro popoli quando vi siano interessi materiali da salvaguardare, quando c’è ancora la speranza di recuperare un trono perduto; ma Francesco già da tempo non nutriva più di queste speranze e, specialmente dopo la definitiva partenza da Roma, aveva pure rinunciato a vedersi restituiti i suoi beni. Eppure, non aveva mai cessato di amare i napoletani. E i napoletani non cessarono mai di amarlo. Non, certamente, i generali che lo avevano tradito; non quegli aristocratici la cui bramosia di ricchezze e di potere si era lasciata stuzzicare dalle astute lusinghe degli avversari (eppure anche a costoro seppe perdonare); ma il popolo, il suo popolo, lo amava davvero perché si sentiva profondamente amato da lui: “sposato”, abbracciato, “comprehensum” Suo padre Ferdinando II aveva regnato per oltre trent’anni, trasformando il Regno delle Due Sicilie in uno degli stati più ricchi e potenti d’Europa. Era un’eredità pesante, che Francesco dovette assumersi inaspettatamente e che si trovò a gestire da solo, quando stava per avere inizio la fase più difficile della storia del Sud. Gli avvenimenti, che si susseguirono in maniera travolgente, precipitarono la dinastia e mutarono la storia del popolo. Di Francesco II la storia, in verità, non se n’è quasi mai occupata, se non in modo apparentemente distratto, e, quando lo ha fatto, ha descritto la figura di un uomo scialbo; l’iconografia lo presenta come un giovane dall’aspetto impacciato, le spalle strette, gli occhi tristi, l’espressione tra il timido ed il corrucciato; insomma, il ritratto perfetto dell’anti-eroe. Ed anche nella storiografia più recente, il re–soldato, che combatte sugli spalti di Gaeta, vi appare quasi trascinato, più che dalla sua convinzione personale, dall’entusiasmo incosciente e, talvolta, imprudente, della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, riconosciuta “eroina di Gaeta”. Restano poco noti, invece, il suo ricchissimo epistolario, il suo diario privato, le memorie di chi visse accanto a lui gli ultimi istanti della sua vita. Da essi emerge una figura di re il cui profilo morale, umano, intellettuale e cristiano è altissimo e rigoroso: un ritratto assolutamente stridente con quello ufficiale consegnatoci dalla storia che, persino nel nomignolo con cui lo identifica, “Franceschiello”, ha voluto imprimere nella memoria collettiva l’immagine del perdente, del non – Re, rappresentandone una regalità in negativo, in cui non trovano spazio concetti come “potere” e “trionfo” e non c’è posto neanche per la competizione, la “competitività” richiesta dai modelli considerati vincenti. Troppo spesso la storia esalta come eroi personaggi mediocri, il cui merito è quello di essere saliti in tempo sul carro del vincitore o di avere agito con cinico egoismo e per puro calcolo materiale o rinnegando valori morali e princìpi religiosi in nome di presunti ideali.. La vicenda garibaldina e l’intera operazione con la quale fu realizzata l’unificazione italiana necessitano ancora oggi di una rilettura che ne chiarisca, una volta per tutte, natura e contenuti. Non è più possibile, di fronte all’evidenza documentale, continuare ad accettare la “vulgata” ufficialmente imposta nei manuali scolastici, attraverso i quali specialmente si dovevano “ fare gli Italiani”. Troppe contraddizioni balzano in evidenza, troppe smentite dei fatti così come ci sono stati raccontati, troppi elementi di un’altra storia ci rivelano una verità diversa da quella conosciuta finora, che è doveroso portare alla luce e diffondere. E’ quella storia, che oggi non è più possibile accettare supinamente, che ci ha consegnato la figura di un “Franceschiello” codardo, pavido, inetto: il ritratto caricaturale di un Re. Chi era, in realtà, l’ultimo sovrano delle Due Sicilie? Il 5 settembre 1860, in procinto di partire per Gaeta, volendo risparmiare alla capitale atroci combattimenti (l’entrata di Garibaldi in città era imminente), pronunciava parole gravi, denunciando al cospetto dell’Europa, che rimase sorda, le evidenti violazioni del diritto internazionale ai danni dei popoli delle due Sicilie: “una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le Potenze Europee”. Il Re denunciava, con una chiarezza e lucidità che pochi, in quel momento, mostrarono di avere, i disegni della setta rivoluzionaria che stava impadronendosi dei suoi Stati, ma che presto avrebbe minacciato l’intera Europa; scriveva ai rappresentanti delle potenze europee di come il Piemonte, che “sconfessava” pubblicamente l’azione garibaldina, segretamente, invece, la incoraggiava e la sosteneva. E paventava il pericolo che la violazione delle norme più elementari del diritto internazionale, che ora stava danneggiando il suo Regno, avrebbe finito per imporre il principio di autolegittimazione dei governi, spianando la strada a regimi basati sulla forza e sulla violenza, anziché sul consenso dei popoli. Fu fin troppo facile profeta: totalitarismi e massacri avrebbero trasformato l’Europa del secolo successivo in un immenso teatro di violenza e di guerre. Nessuno sembrava, in quel momento, rendersene conto quanto lui: “questa guerra spezza ogni fede ed ogni giustizia ed arriva fino a violare le leggi militari che nobilitano la vita ed il mestiere di soldato ... L’Europa non può riconoscere il blocco decretato da un potere illegittimo ... L’azione di Garibaldi è quella di un pirata. Accettandola, l’Europa civile tollererebbe la pirateria nel Mediterraneo... Ma l’Europa stava a guardare. Francesco II, invece, combatteva contro questo nuovo modo di fare la guerra: sul Volturno, a Gaeta, sul fronte della diplomazia. Combatteva e protestava instancabilmente, pur nella crescente consapevolezza di non poter salvare se non l’onore; combatteva a fianco dei suoi soldati, per il popolo che aveva “sposato” e che non lo abbandonava, perché “fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandi e solenni; ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso quale si addice al discendente di tanti Monarchi”. Lucidamente consapevole della sconfitta, non fece nulla per sottrarsi al suo dovere di Re, raccomandando ai suoi popoli “la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini” anche quando l’esito gli fu fatale.

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Lasciando Napoli, Francesco II non portò nulla con sé. Il 12 settembre, appena una settimana dopo la sua partenza verso Gaeta (il Regno delle Due Sicilie era, dunque, ancora formalmente uno Stato legittimo riconosciuto dalle potenze europee), i suoi beni venivano dichiarati da Garibaldi “beni nazionali”; e quando, succeduto Vittorio Emanuele, si discusse se rendere a Francesco i suoi beni privati, una tale eventualità fu condizionata alla sua partenza da Roma, dov’era ospite del Papa. Lo si voleva allontanare il più possibile da Napoli, perché la sua sola prossimità al Regno era sufficiente a tenere alto il morale di chi combatteva per l’indipendenza della patria. Francesco non accettò: non poteva consentire alcuna strumentalizzazione della sua persona facendone ricadere su di lui la responsabilità dei massacri, che l’esercito piemontese stava attuando nel tentativo di piegare la resistenza dei napoletani. Perché di “Napolitani” si trattava - come sottolineava con forza il Re - e non di “briganti” ed “assassini”, come invece li dipingeva la propaganda; napoletani come lui, e, come lui, “disgraziati che difendono in una lotta ineguale l’indipendenza della loro patria ed i diritti della loro legittima dinastia”. Di quei “briganti”, ad ogni modo, se tale era la loro identità, lui, il Re, si reputava onorato di esserne il primo. Ed avendo, d’altra parte, perduto un trono, che gli importava di perdere le ricchezze?. “Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me: ed ai miei occhi il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza” : queste le parole con le quali respinse il “consiglio” di Napoleone III di allontanarsi da Roma. Non riebbe più i suoi beni, che furono distribuiti, in barba a statuti e “proteste”, ai “martiri” dell’Unità d’Italia (Paese che, a quanto pare, continua ancora oggi a produrre “martiri”, se c’è chi pretende - in modo assai poco regale, in verità- dallo Stato, dunque dai suoi cittadini, il risarcimento dei danni derivati dall’esilio cui furono sottoposti, dopo il 1948, gli ex Re d’Italia ed i loro discendenti maschi, ossia i continuatori, effettivi e potenziali, di una dinastia che aveva fondato le sue fortune, oltre che la Nazione, principalmente sul sangue degli avversari, cui aveva strappato il Trono, e delle popolazioni che in quel Trono si riconoscevano,senza minimamente preoccuparsi del loro destino). Francesco, Re - Sposo dei suoi popoli, invece non cessò mai di preoccuparsi delle loro necessità, nella buona come nella cattiva sorte: l’11 gennaio 1862 riusciva ad inviare la somma di 800 scudi all’Arcivescovo di Napoli Riario Sforza, per venire in soccorso della popolazione di Torre del Greco, colpita dal terremoto. “Tutte le lagrime dei miei sudditi – scriveva in quell’occasione – ricadono sopra il mio cuore, e non mi sovviene della mia povertà che allora soltanto che, in simili circostanze, m’impedisce di fare tutto quel bene, al quale mi sento per natura trasportato... Sovrano esiliato, non posso slanciarmi in mezzo a’ miei figli per alleviarne i mali. La potenza del Re delle Due Sicilie è paralizzata, e le sue risorse son quelle di un sovrano decaduto che non ha trasportato seco, lungi dal suolo ove riposano i suoi antenati, che l’imperituro amore per la patria assente. Ma comunque grande sia la mia catastrofe e meschine le mie risorse, io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli miei” Anche sugli spalti di Gaeta, quando tutto era ormai perduto, questo Re non aveva avuto altro pensiero che quello di consolare i suoi popoli nelle sventure comuni. Sempre fiducioso nella Provvidenza, le sue parole non furono mai di cupa rassegnazione, ma sempre vibranti di passione interamente napoletana: “Ho combattuto non già per me, ma per onore del nostro nome... io sono napolitano; nato in mezzo a voi non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le mie”. Orgoglioso della sua “napoletanità” e dell’appartenenza ad una dinastia che, da oltre cento anni, regnava pacificamente su quei territori, ai quali aveva restituito indipendenza ed autonomia, Francesco rivendicava la legittimità del trono: “non mi ci sono installato dopo avere spogliato gli orfanelli del loro patrimonio, né la Chiesa dei suoi beni; né forza straniera mi ha messo in possesso della più bella parte d’Italia. Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità...” Pace, concordia, prosperità: erano questi i beni che voleva per i suoi popoli. Perfettamente a conoscenza di tradimenti e cospirazioni, aveva voluto evitare spargimenti di sangue: questa sua scelta, che ostinatamente difendeva, gli aveva procurato – egli mostrava di esserne profondamente consapevole – accuse di inettitudine e debolezza. Ma preferiva queste accuse ai trionfi degli avversari, ottenuti con il sangue e la violenza. Cinismo, tradimenti e spergiuri sembravano sempre più fare parte dei moderni codici militari, ma a Francesco continuavano ad essere cari gli antichi codici della cavalleria, che riposavano sulla sacralità del giuramento, sulla fedeltà alla parola data, specie se parola di Re. Per questo non aveva potuto credere che il re del Piemonte “che protestava di disapprovare l’invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima per il vero interesse dell’Italia”, avrebbe violato tutti i trattati e calpestate le leggi, invadendo il regno delle Due Sicilie senza neanche una dichiarazione di guerra. Ma alla tracotanza del nemico si poteva rispondere solo rimanendo uniti nella concordia, intorno al trono dei propri antenati, superando antiche divisioni (il discorso riguardava specialmente i siciliani): “il passato non sia mai un pretesto di vendetta, ma un avvertimento salutare per l’avvenire” Occorreva avere fiducia, ancora una volta, nella Provvidenza divina ed accettarne, comunque, i disegni, profondi ed imprescrutabili; ma nessuno – e specialmente il Re - poteva sottrarsi al proprio dovere: “Difensore dell’indipendenza della patria, resto a combattere qui per non abbandonare un deposito così caro e così santo. Se ne ritornerà l’autorità ed il potere nelle mie mani, me ne servirò per proteggere tutti i miei diritti, rispettare tutte le proprietà, salvaguardare le persone ed i beni dei sudditi miei contro ogni oppressione e depredamento. Se poi la Provvidenza nei suoi profondi disegni decreta che l’ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò con la coscienza senza rimproveri e con una risoluzione immutabile, ed attendendo l’ora della giustizia, farò i voti più ferventi per la prosperità della mia patria e per la felicità di questi popoli che formano la più grande e la più cara parte della mia famiglia”. L’esilio vissuto negli ultimi anni ad Arco, senza più speranza di recuperare trono ed averi personali, non cancellò la validità di questo “patto”: bastava essere napoletano per essere ricevuto da lui e furono tanti coloro che ebbero modo di incontrarlo. A tutti chiedeva notizie della sua Napoli, senza che mai alcuna parola di biasimo per i nuovi regnanti e governanti uscisse dalla sua bocca. Così come non voleva che si parlasse delle sue passate vicende, della sua vita di Re: le considerava un sogno del passato, che ormai si era dissolto. Aveva conservato il titolo di Duca di Castro, ma tutti ad Arco lo conoscevano come “il signor Fabiani”. Fu solo dopo la sua morte che gli abitanti della cittadina trentina scoprirono la vera identità di quel gentiluomo che, tutte le mattine, sedeva al bar a fare colazione ed a leggere i giornali, dopo avere ascoltato la Messa, ed ogni sera, puntuale, si recava per la recita del Santo Rosario presso la Chiesa della Collegiata. Francesco II lascia nella storia un nome, che le iniquità e le calunnie non possono oscurare. I doveri di sovrano, che egli seppe compiere cristianamente, i doveri di soldato valoroso nell’eroica difesa di Gaeta, i suoi proclami e le note diplomatiche indirizzate ai monarchi di Europa durante i tristi momenti della sua caduta, dimostrano ai posteri tutto il suo valore ed indicano un modello di regalità che non evoca immagini di potenza e di gloria ed invita, piuttosto, a riflettere sulla nobiltà della politica: concetto, oggi, purtroppo, estraneo alla nostra esperienza, perché caduto progressivamente in desuetudine, ma che dovremmo sforzarci di recuperare. La società moderna, infatti, riconosce il primato della “competitività” piuttosto che quello della “comprensione” e privilegia senz’altro gli interessi materiali che, in nome dell’individualismo e dei vantaggi dei singoli, non esitano a sacrificare il bene comune.
Napoli, 26.11.2007



Rete delle Due Sicilie
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martedì 18 dicembre 2007

· Nápoles, Buenos Aires: Ma quale eroe... PER FARLA FINITA CON GARIBALDI · Mensaje de S.A.R. el Duque de Aranjuez


Nápoles, 14 diciembre 2007. Con gran éxito se ha celebrado en el Hotel Majestic de Nápoles el acto con el cual la Editorial Il Giglio y el Movimento Neoborbonico han clausurado el año de contracelebraciones del bicentenario del nacimiento del aventurero Giuseppe Garibaldi.La figura contradictoria y ambigua del pretendido "héroe de los dos mundos" ha sido analizada doctrinalmente por el profesor Guido Vignelli, del Centro Cultural Lepanto, que ha centrado en el odio anti cristiano de Garibaldi su carácter distintivo.El profesor Gennaro De Crescenzo, presidente del Movimiento Neoborbónico, ha denunciado el derroche de dinero público --más de dos millones de euros--para las celebraciones oficiales del aventurero, que sin embargo han dejado indiferente al país real, a pesar de la movilización del aparato del Estado y de la misma presidencia de la república.La doctora Marina Carrese, de la Editorial Il Giglio, ha señalado que el Rey Francisco II de Borbón, el último Rey de Nápoles, atacado alevosamente por las bandas garibaldinas, armadas por el Piamonte y pagadas con el oro masónico, es el verdadero héroe que debe mostrarse a las jóvenes generaciones.En el acto se ha leído un mensaje de saludo y adhesión de S.A.R. Don Sixto Enrique de Borbón, aplaudido por los numerosos presentes, que ha animado a continuar el combate por la Tradición.También se ha recibido un mensaje de adhesión de Joaquim Maria Cymbron, del Movimiento Legitimista Portugués.En conferencia telefónica desde Buenos Aires ha intervenido el profesor Vincenzo Gulì, vicepresidente del Movimiento Neoborbónico. Simultáneamente, de hecho, las contracelebraciones del bicentenario garibaldino se han llevado a cabo en Argentina, entre los numerosos descendientes de emigrantes meridionales. También por ellos el pretendido "héroe de los dos mundos", como la retórica definiera a Garibaldi, ha sido desenmascarado y reconocido como impostor y aventurero al servicio de amos diversos.Mensaje de S.A.R. el Abanderado de la TradiciónHace tan sólo unos meses tenía la satisfacción de saludar vuestra iniciativa de aprovechar la efeméride del bicentenario de Garibaldi para impulsar un "Comitato per la Verità Storica" que (al contrario que tantas otras acciones acogidas a una supuesta "memoria histórica" para, lisa y llanamente, hacer avanzar la Revolución) exalta la verdadera entraña católica e hispánica del Reino de Nápoles. En tal sentido podríamos decir que habéis servido a la Tradición, más allá de la simple "memoria".Ahora que se acerca el fin de las conmemoraciones no quiero que os falte mi cariñoso recuerdo. Que os hago llegar a través de mi Jefatura Delegada y su Delegación en la Península italiana, siempre eficaces, que sé próximas a vosotros por muchos años de trabajo a veces conjunto.Estoy seguro de que el balance de este año ha de ser ampliamente positivo. Así como que el cierre del ejercicio no significará en modo alguno el fin de la tarea y el combate. En tal sentido, y al tiempo que os animo a perseverar en el buen combate, os reitero mi asistencia constante al servicio de esos comunes ideales.En el exilio, castillo de Lignières, a doce de diciembre de 2007Sixto Enrique de Borbón.
fonte: www.neoborbonici.it

lunedì 17 dicembre 2007

ESISTE UNA NAZIONE ITALIANA?


ESISTE UNA NAZIONE ITALIANA?
La popolazione del Sud della penisola italica ha una sua precisa identità, una «coscienza nazionale», che si fonda su oltre mille anni di comuni tradizioni, di lingua, di cultura, di organizzazione territoriale e di vicende storiche. Il tempo, che il Sud ha trascorso finora nell’Italia unita, non è in pratica neppure un decimo della sua lunga storia, troppo poco perché possa essere determinante per un cambiamento della propria identità. Infatti, nonostante la forzata annessione agli altri popoli della penisola, avvenuta nel 1860, cioè da quasi un secolo e mezzo, per l’opera violenta delle armi savojarde, la «coscienza nazionale» del Sud non è mai venuta meno. è, d’altra parte, sotto gli occhi di tutti che al Sud, nonostante la mescolanza di usi e costumi differenti, non è mai diminuita la tipicità degli idiomi, del carattere, della mentalità, delle abitudini e perfino delle prospettive, assai diversi da quelli delle popolazioni del centro-nord. Inoltre si assiste al fatto che questa «coscienza nazionale» si sta rapidamente risvegliando tra i Meridionali, molto più che nel Nord leghista, dove tra l’altro non è quasi mai esistita una tradizione comune. Quasi tutto il Sud ha comuni radici greche, risalenti al 1000 a. C., e nella parte continentale una comune origine etnica osca ancora precedente, ed era già uno Stato unito fin dal 1130, mentre il Nord ha diverse origini: galli, cimbri, franchi, ecc., e la sua storia si basa soprattutto sulle comunità feudali (i cosiddetti liberi Comuni), a volte non più grandi delle mura di una città. Si può affermare che solo da 140 anni il Nord italico vive in un unico Stato. Esemplari, inoltre, sono le più che evidenti differenze con le popolazioni tedesche del Sud Tirolo (che l’Italia chiama Alto Adige) oppure con quelle francofone della Val d’Aosta. Come si vede, gli «italiani» non esistono e, in prospettiva, ci vorrebbero migliaia di anni per «farli». Una «nazione» italiana, dunque, nel vero senso che ha questo concetto, non esiste ancora, né se ne può prevedere il tempo della formazione. Cos’è, allora, questa Italia «unita»? Un’invenzione. Una invenzione che fa comodo a molti. Come lo è l’Europa unita.A proposito di Europa, dato che, con l’imposizione della nuova sistemazione politica, sono stati aboliti i confini tra gli Stati dell’Unione e unite le diversissime popolazioni con il solo collante della moneta unica, si osserva che, per reazione a questa forzata e innaturale unione, stanno riemergendo in alcune zone le molte «coscienze nazionali» dalle origini lontane nel tempo. A parte il Regno Unito, che ha conservato sin dal suo sorgere le differenze geopolitiche delle nazionalità al suo interno, con i conseguenti problemi identitari, la Spagna, lo Stato a noi più vicino per carattere e vicende storiche, ha anch’essa da sempre forti contrasti nel suo interno, esempio la Catalogna. Quest’ultima è cioè formata da un popolo accomunato dalla storia, dalla lingua, dalle tradizioni, dalla cultura completamente diverse, pur dopo secoli di comunanza, da quelle castigliane. La Castiglia si originò con i Visigoti circa nel 550 d.C., mentre la regione catalana si formò con i Franchi nel 785. Il Principato di Catalogna e il Regno di Castiglia in seguito vissero aggregati dal 1479 al 1714, anno in cui Filippo V, con la violenza delle armi, si annesse la Catalogna e formò quello che oggi si chiama Regno di Spagna. Tra l’altro la Spagna, nel 1579, era riuscita anche ad annettersi il Portogallo, unificando così tutta la penisola iberica, ma la diversità dei due popoli portò fine a questa forzata unione nel 1640, quando il Portogallo ritornò indipendente. Insomma anche l’unificazione della penisola iberica non fu un avvenimento naturale, ma violento per le mire politiche dei governanti. Dopo vari avvenimenti, nel 1979, la Catalogna riuscì a costituirsi in Comunità autonoma e oggi è la regione più ricca della SpagnaAltro esempio da prendere in considerazione, questa volta in casa nostra, è il Tirolo «italiano». Costituito in Provincia Autonoma, i suoi abitanti hanno oggi un P.i.l. pro capite di 38.562 euro, vale a dire uno tra i dieci più alti d’Europa e con un quasi inesistente tasso di disoccupazione. Neanche da metterlo a confronto con quello del Sud che non è autonomo. Quella catalana e, per certi versi, anche quella tirolese, dunque, sono vicende un po’ simili a quella del Sud Italia, anch’esso annesso con la violenza delle armi, che non si può capire se non si guarda al suo passato. Il Sud - è necessario sempre ricordarlo - si trova nelle attuali condizioni di sottosviluppo non per propria incapacità (come si vuole far credere in ogni occasione per meglio dominarlo), ma perché brutalizzato dalle armi savojarde che l’hanno ridotto a colonia, continuando ancora oggi a sfruttarlo e a gettare continuamente fango sulla sua gente, soprattutto con la più grande delle menzogne: il cosiddetto «risorgimento». Questo «risorgimento», infatti, - anche questo è necessario sempre ricordarlo - fu il «risorgimento» del solo Piemonte, che prima del 1860 stava affogando in un mare di debiti e che «risorse» rapinando tutta la penisola, particolarmente il ricchissimo Sud. Poi, il Piemonte, vincitore, raccontò la «sua» storia affibbiando il «risorgimento» anche al Sud, dicendo che era venuto a «liberarlo» dalla «dittatura» borbonica. Però, per fare questa «liberazione», rapinò e devastò le terre del Sud con oltre dieci anni di criminale dittatura e compiendo una feroce pulizia etnica con l’assassinio di molte centinaia di migliaia di persone recalcitranti che non volevano diventare «italiani» e favorendo pure, con leggi ad hoc in favore del Nord, una biblica emigrazione dal Sud. Il fatto che ancora oggi lo Stato italiano continua a celebrare il «risorgimento» come «gloria italiana», per il Sud ha lo stesso significato che si avrebbe nel caso che i nazisti, se avessero vinta la II guerra mondiale, imponessero oggi agli ebrei di celebrare le «glorie del III Reich».Le celebrazioni del «risorgimento» e del bicentenario del criminale Garibaldi sono la prova provata che questa Repubblica, che si proclama «italiana», è in realtà ancora quella del regno savojardo-piemontese del 1860, altrimenti avrebbe rispetto per il Sud, lo considererebbe «italiano» e non l’offenderebbe con queste squallide celebrazioni. Ben sanno i «celebranti» che i veri avvenimenti del «risorgimento» non sono quelli che celebra, ma ben altri: avvenimenti grondanti di sangue innocente, di ladrocinii, di frodi e devastazioni a danno dei Meridionali. O si deve presumere che sia proprio questo che si vuole celebrare? Se è così, allora, viva i Ladri e gli Assassini!Al Sud, intanto, le tasse aumentano, ma la qualità dei servizi non migliora affatto. Nel 2005 i contribuenti del Mezzogiorno hanno versato alle casse comunali 229 euro pro capite contro i 175 euro del 1994. Al contrario, al Nord, le entrate tributarie comunali sono scese da 358 a 350 euro pro capite. Tra il 1994 e il 2005, il gettito pro capite dei tributi è cresciuto a valori costanti del 29% circa, contro un incremento nazionale del 5,1%. Questo il quadro tracciato da uno studio pubblicato sulla "Rivista economica del Mezzogiorno", trimestrale della Svimez edita da Il Mulino e in uscita in questi giorni. Se questa è l’Italia unita, l’Italia che continua a farci la guerra, con armi ben più pericolose dei cannoni e fucili del Cialdini, quale senso ha oggi restare ancora uniti all’Italia-Piemonte? Considerando che siamo tutti cittadini europei, non cambierebbe la sostanza dell’Unione Europea se si modificassero questi innaturali confini ottocenteschi. Confini che ormai non ci sono più ed hanno unicamente funzione amministrativa. Non si commetterebbe alcun peccato mortale se noi del Sud ritornassimo ad amministrarci autonomamente al di fuori dello Stato italiano, tanto saremmo sempre in Europa, ma almeno liberi di poter sviluppare una nostra economia e una nostra società; e finalmente liberi di non dover più subire le infami celebrazioni dei bicentenari degli assassini figli dello squallido «risorgimento» piemontese. Che se le facciano loro, a Torino. I nostri eroi, le nostre celebrazioni, hanno ben altri valori.

IL BRIGANTAGGIO NELLA LETTERATURA


La figura del brigante quale ci viene consegnata dalla fantasia popolare si veste spesso di mito.Il brigante è un uomo proveniente da classi sociali disagiate, costretto a darsi alla macchia per rispondere a una qualche violenza subita e a farsi giustizia da sé laddove le leggi non si mostrano eque.
Questa immagine eroica nasce in età romantica, con Washington Irving, George Byron, Walter Scott, ma pare già diffusa tra cantastorie e poeti dell'improvviso e convince comunque narratori colti a raccontare figure leggendarie provenienti a volte da famiglie aristocratiche che hanno subito violenze o hanno abbracciato una qualche causa politica come Robin Hood, la Primula Rossa, Fra Diavolo, Il Passatore, Zorro, i tanti corsari della marineria anglo olandese.
E' il tempo a trasformare in leggenda i fatti di cronaca, mano a mano che si decantano gli avvenimenti e muoiono gli spettatori diretti dei fatti. Ma proprio una diversa impostazione del mito ha ingenerato una divisione tra figure del brigantaggio romantico e figure del brigantaggio postunitario.
Gli occhi del popolo tendono a vedere in quelli che precedono l'Unità dei difensori degli umili e degli avversari dichiarati delle classi benestanti. Ma le loro figure vengono utilizzate con doppia funzione, per esaltazione sociale (e penso ai personaggi appena citati) e quali esempi di devianza, modelli da non ricalcare e da fuggire in quanto negativi.
La tipologia narrativa dei cantari briganteschi vede in principio un'onta subita e la costruzione di una trama di eventi finalizzata alla vendetta. Per realizzare la vendetta infatti il futuro brigante esce dalle regole del vivere civile e cade in una serie di efferatezze.La violenza esercitata è al tempo stesso un climax e una sorta di catarsi per il lettore, in quanto più è efferata, più lenisce il dolore dello schiaffo patito.Una sorta di nemesi storica, una rivalsa sociale e psicologica nella quale il lettore si sente soggetto e attore, in un continuo transfert con colui del quale si raccontano le gesta. Contemporaneamente però mano a mano che si accumulano sulla testa dell'eroe i capi d'accusa aumenta il senso della stortura della vita e il climax della vicenda, l'acme della tensione, tende a comprimere il lettore o l'ascoltatore, con la situazione di non ritorno che si crea, ne mortifica lo spirito e lo carica di pietà.
A chiudere la storia c'è l'uccisione del nemico giurato che fa da anticlimax, nel senso che produce uno sgonfiamento della tensione. Il brigante fugge oltre i confini della propria terra e trova rifugio in un posto sicuro oppure viene catturato e affidato alle patrie galere o ucciso. Accade talvolta e lo testimoniano molti canti religiosi narrativi, che intervenga un santo o la Madonna a portare l'uomo sulla strada della redenzione. La catarsi sta allora in un pistolotto edificante che racchiude anche le finalità della narrazione.
In questo tipo di prodotto realtà e mito si fondono, il racconto diventa leggendario grazie a una serie di accorgimenti: l'epicità, gli eventi magici e fantastici, il ritmo sostenuto, l'assunzione dell'ottava, secondo la tipologia del cantare cavalleresco medievale e rinascimentale dove realtà e fantasia si fanno tutt'uno e la cronaca è un filo che sottende le invenzioni dell'autore o le aggiunte che effettuano i soggetti della trasmissione orale.Almeno va così per i briganti romantici, per quei banditi le cui vicende precedono cioè l'età unitaria.
Con le figure postunitarie, quelle della guerra sociale del mezzogiorno furono possibili pochi voli fantastici nel momento reinventivo.La vicenda bellica era stata troppo sanguinosa, aveva coinvolto due paesi, c'era stato un eccesso di morti e soprattutto si era trattato di una questione politica risoltasi con un atto di occupazione. Sicuramente cantastorie e poeti erano stati frenati dal timore di cadere in una sorta di apologia di reato. E il paese era dominato da coprifuoco politico.
Intendo dire insomma che dopo il 1861 non è possibile in Italia raccontare alla maniera romantica ed esotica di Dumas o di Washinton Irving e solo un giornalista come Marc Monnier che approda in Italia in età di realismo scientifico introduce un racconto che è cronaca politica, anzi non è lui a introdurlo, perché la prima edizione del Diario di Borjes esce in Francia e di qui poi passa nel nostro paese attraverso una traduzione e una mediazione editoriale fiorentina. Insomma mentre il popolo racconta storie di tesori sepolti dai briganti, intellettuali e narratori non tendono più a edulcorarne le vicende e le gesta ma ne danno una immagine più truce, descrivendoli come disperati, assassini o sbandati. Non c'è spazio per l'epica, non per il mito.La storia che si narra dev'essere edificante, tale che costituisca o un monito per gli ascoltatori o un'analisi scientifica dei fatti.
I cantastorie, i librettisti italiani, i pochi narratori dell'Ottocento assolvevano dunque il compito di pompieri del nuovo Stato unitario;a differenza degli stranieri molto più liberi di scrivere e di intervenire sulla questione italiana; erano una sorta di "piffero dell'antirivoluzione" per parafrasare in negativo un'espressione di Elio Vittorini riferita al rapporto tra intellettuale e potere politico.
Ma entriamo nei fatti e nella cronologia di una serie di prodotti letterari che attengono al nostro tema. Partiamo da un canto popolare di Melfi giuntoci in una versione molto corrotta, a metà degli anni settanta.Vi si narrano le vicende di un uomo vissuto nel Seicento e conosciuto col nome di battaglia di Abate Cesare.Di esse ci danno notizia Antonio Bulifon (1) e, in tempi più recenti Benedetto Croce(2).
"L'abate Cesare na surell avei/d li billezz la palma purtai, /da lu Dìuca have nu bigliett/ca ngi vulei scì senza rispett"
Per difendere l'onore della sorella macchiato dal duca, l'Abate Cesare affronta il malfattore e senza ascoltarne le ragioni passa a vie di fatto e si dà quindi alla macchia:
"Mpitt n mena na scuppettata, /l'have acceso a colp d stilettate./'Mbront n lu scrive nu bigliette:/"Chi l'ha fatt stu gran macell/l'Abate Cesare p la sua surell".(3).
Dell'onore tradito di sorelle, madri e compagne di futuri briganti la letteratura popolare è piena, si pensi alle ragioni per cui Carmine Crocco si dà al brigantaggio o alla vigliaccheria del Capitano che approfitta della bella Cecilia ma che non mantiene la promessa di liberarne il marito Peppino(4). E si pensi anche ad avvenimenti consumatisi tra rappresentanti della nobiltà come il delitto d'onore commesso dal principe Carlo Gesualdo ai danni del marchese Carafa e della propria moglie Maria d'Avalos.
Una vicenda che fece nascere molti Successi a stampa(5), come venivano chiamati i fogli volanti cinquecenteschi, e fiumi di versi e che stabilisce una sorta di canone etico: il delitto d'onore è un lasciapassare per l'immediata reintegrazione morale dell'assassino. Questa regola si estende ovviamente anche a quanti sfuggendo alla legge che li perseguita per delitto d'onore si danno alla macchia e diventano briganti.Al punto che non solo il popolo ma la stessa cultura letteraria finisce col guardarli con occhi positivi.
Meno indulgente è il cantastorie quando si trova di fronte a uomini spinti a delinquere da crudeltà innata e privi di motivazioni sociali.Ecco come si esprime tra la fine del 600 e l'inizio del 700 un anonimo cantore popolare che scrive la storia del bandito Rainone originario di Carbonara di Nola, la Crudelissima istoria di Carlo Rainone. Dove s'intende la Vita, Morte, ricatti, uccisione, ed imprese da lui fatte, (6)
"Nel mondo vi sono male genti, /ma mai come Carlo Rainone;/vi sono sempre stati insolenti, /ma mai come questo non v'è menzione".
Il cantare, ovviamente in ottave, attacca con Rainone già alla macchia e procede in una serie di descrizioni di atti criminosi per concludersi con la morte del bandito e con un'ottava morale
"Nessun si vanti con il brando a lato, /né vada scalzo chi semina spine, /raccoglierai quel che hai seminato"

L'opera fu pubblicata più volte nel corso dell'Ottocento, prima del brigantaggio postunitario.Stessa funzione di monito assume il cantare di Donato Antonio de Martino che alla fine del 700 pubblica l' Istoria della vita e morte di Pietro Mancini capo di banditi.Il Mancini era originario di Castel di Vico nel Salento, e la sua deliberazione di darsi alla macchia appare quasi priva di alternative , per cui il cantare si presenta in posizione assolutoria della scelta del brigante ma non rinuncia alla funzione didascalica nei versi conclusivi.
"Che alli banditi i lor fin si nota/il collo in terra, la forca e la rota."
Una storia agiografica in tre canti del brigante Angelo del Duca , originario di san Gregorio Magno viene composta da Pasquale Fortunato avo di Giustino, a fine 700.Il testo, rimasto per altro inedito, è questa volta smaccatamente mitizzante e verrà ripreso più tardi da Benedetto Croce come supporto documentale per raccontare la vita di Angiolillo.
Fin qui il brigantaggio preunitario. A partire dal 1861 la posizione dei cantori diventa meno indulgente e l'atmosfera di caccia alle streghe che doveva essersi diffusa nelle città e nei borghi meridionali influenza le opere.E' emblematica l'ostilità espressa dall'anonimo autore di una canzone nella quale si narra in versi la Vera istoria della vita e morte del famoso bandito Chiavone che venne ucciso da un suo compagno chiamato Tristanì (7).
Luigi Alonzo, detto Chiavone, venne fucilato dalle truppe regolari piemontesi il 24 giugno 1862. L'anonimo che non adotta più l'ottava epica ricorre all'inno in quartine, alla maniera di Manzoni, per condannare le gesta del bandito che fu
"Nemico della patria/e della libertà, /per conto d'un Borbone/lasciava la città"
e si dava a mille efferatezze. L'inno si chiude con l'invito
"ognun detestasi/il perfido Chiavone/che fu brigante celebre/nei fasti del Borbone".
Nel decennio 1861-70 la pubblicistica italiana, protesa a difendere le ragioni dell'unità, lascia agli intellettuali stranieri il compito di fare da controinformatori. Marc Monnier pubblica a Parigi l'Histoire du brigantage dans l'Italie Meridionale, (ed. Levy Freres, 1862). L'opera esce subito dopo a Firenze in traduzione italiana col titolo Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province meridionali dai tempi di fra Diavolo sino ai nostri giorni aggiuntovi l'intero Diario di Borjès finora inedito, ( Firenze 1862). In Spagna sono Mane y Flaquer J. e Mola y Martinez a pubblicare una Historia del bandolerismo y de la camorra en la Italia meridional, con las biografias de los guerrilleros catalanes Borges y Tristany, (Barcellona, 1864, pp.349-370) e in Inghilterra è un fuoruscito italiano, Antonio Maffei a pubblicare Brigand Life in Italy: a history of bourbonist reaction. Edited from original and authentic documents by count Maffei, (London, Hurst and Blackett, 1865).
Mentre la battaglia per il Sud si accende in Parlamento e si cominciano a pubblicare veri e propri resoconti dettagliati sulle bande dei briganti, da quello di Giuseppe Magaldi, Fatti briganteschi, (Potenza, Santanello, 1862) a quello di Giacomo Oddo, Il brigantaggio o l'Italia dopo la dittatura di Garibaldi.(Milano, 1863) è Giovanni Fattori a rompere il cerchio di omertà del mondo dell'arte quando dipinge L' Episodio della campagna contro il brigantaggio nel 1863, (8).
Negli stessi anni, un prete antiborbonico cosentino, Vincenzo Padula, scrive il dramma Antonello capobrigante calabrese, pubblicato nel "Brutium", la rivista da lui fondata e diretta tra il 1864 e il 65.
Non dimentichiamo che vige nel sud ancora la legge militare e che Padula ha un atteggiamento non diverso dal Dario Fo de Il Fanfani rapito o dallo Sciascia di Todo modo. I tempi sono roventi, gli autori hanno paura nè esiste ancora una consapevolezza del brigantaggio come questione sociale.E' una faccenda di delinquenti, di reazionari, di sbandati.
Solo il realismo scientifico di Zola e il verismo verghiano provano ad aprire le porte a un nuovo modo di affrontare i fatti del Mezzogiorno. Tuttavia bisognerà aspettare la fine del secolo perché il brigante cominci a destare interesse come fenomeno sociale determinato dalla natura degli uomini e dei luoghi, secondo una interpretazione lombrosiana.
Si fa anche strada con le ventate di socialismo il convincimento che siano stati destino e miseria a spingere molti alla macchia. In Basilicata, epicentro della rivolta, si persiste nella denuncia delle tristi condizioni igieniche, sanitarie e sociali ma si guarda al brigantaggio come a un fenomeno spaventoso, tribale, che ha fatto piombare la regione nella notte del medioevo. La pubblicistica tradisce una frattura tra la borghesia dominante e il mondo subalterno dei contadini.
Di briganti si scriverà invece con diverso approccio in Calabria, dove c'è una riflessione più matura sul fenomeno, certamente originato dall'esperienza letteraria e politica di Vincenzo Padula. E' passato già un decennio dai fatti di sangue più cruciali quando vede la luce il dramma eroicomico di Luigi Stocchi, Ciccilla o i briganti calabresi (Reggio Calabria, Ceruso, 1873) e otto anni dopo escono i Racconti calabresi di Nicola Misasi ( Napoli, Morano, 1881). Misasi è calato nei problemi del sud, anche se li vive da Roma dove ha aderito al gruppo letterario di Angelo Sommaruga e al socialismo di Turati e vive la questione sociale nella ricostruzione di vicende brigantesche originate dalla natura dei luoghi e dalla miseria. Condizioni che agiscono sulla formazione degli uomini, come leggiamo nelle Cronache del brigantaggio (Roma, 1898), ne L'assedio di Amantea (Napoli, Regina, 1893), nella Briganteide, (Napoli, Chiurazzi, 1906) o nella vita di Giosafatte Tallarico, (in Cronache del brigantaggio e riproposta a Verona nel 1984). E non diversa è l'impostazione culturale di Giovanni De Nava che pubblica nel 1901 Musolino, bandito d'Aspromonte, (Firenze, Nerbini).
Nel 1872 intanto G. Olivieri scrive una Storia che pare un romanzo, nella quale analizza le vicende di Carmine Crocco e apre in questo modo un capitolo intorno alla figura del comandante rionerese.Non dimentichiamo che al tempo dell'uscita del libro Crocco è già in carcere e che i tribunali ancora non hanno emesso una sentenza definitiva su di lui.Per farci un'idea del clima e delle difficoltà che gli autori incontravano nell'affrontare questi argomenti dovremmo immaginare un giornalista che nel 1970-80 intenda affrontare pubblicamente le vicende eversive di un qualche militante delle Brigate Rosse. Col rischio di vedersi calare addosso in qualunque momento l'accusa di apologia di reato. Cosa che doveva accrescere ulteriormente il mistero sulla guerra appena combattuta nel sud e far fiorire defezioni e latitanze nella società intellettuale italiana.
In tutto questo, un ex comandante militare, Eugenio Massa, decide di fare visita a Crocco in carcere e di farsi raccontare gli avvenimenti di cui è stato attore. Sono gli stessi anni (1894) in cui Telemaco Signorini visita il carcere di Portoferraio e dipinge un'opera intrisa di pietà, Bagno penale a Portoferraio, dove si è voluto vedere nella figura del primo carcerato a destra, un uomo corpulento in catene, Carmine Crocco (9). Massa trascrive e pubblica il racconto di Crocco in un libro che farà molto discutere sociologi e linguisti, Gli ultimi briganti della Basilicata:Carmine Donatelli Crocco e Giuseppe Caruso.Note autobiografiche edite ed illustrate dal Capitano Eugenio Massa, ( Melfi, tip. Grieco, 1903).


Un anno dopo, presso lo stesso tipografo, pubblica il libro Vittime dimenticate del brigantaggio. Nel 1903, subito dopo l'uscita del libro di Massa, Basilide del Zio interviene sulla questione con il volume Il brigante Crocco e la sua autobiografia-Memorie e documenti (Melfi, tip.Grieco) . In appendice all'autobiografia del Massa appare anche l'interrogatorio di Giuseppe Caruso, una sorta di pentito di Stato. L'interrogatorio verrà ristampato a Roma presso la tipografia Quintieri nel 1971 insieme all'autobiografia di Crocco che sarà ripubblicata più volte nel secondo dopoguerra, da Tommaso Pedio (Manduria, Lacaita, 1963) quindi da Mario Proto (Manduria, Lacaita, 1994) e infine da Valentino Romano (Bari, Adda, 1997).Qualcosa stava cambiando nella riflessione culturale e politica del tempo. Una conoscenza più analitica delle condizioni del Mezzogiorno portata in Parlamento da Zanardelli, Azimonti, Fortunato, stava convincendo intellettuali e opinione pubblica a guardare alla questione del brigantaggio con altri occhi e faceva più coraggiosi gli editori. Eugenio Rontini poteva scrivere nel 1885, le vite de I briganti celebri italiani (Firenze, Salani), producendo una rivisitazione tra mito e analisi di cronache epiche, alla maniera di Dumas. Nicola Marini pubblicava nel 1888, presso Zanichelli, la raccolta di racconti Tra le foreste di Monticchio, in cui attingeva anche dalla saga dei briganti, con almeno un paio di storie attinenti al tema e una dedicata a Borjes a Pietragalla.
In uno stile verista, secondo i modelli coevi di Verga e Capuana, (autore tra l'altro del libro La Sicilia e il brigantaggio, Palermo, 1892), Marini anticipava una serie di opere dedicate al brigantaggio, dal romanzo tardoromantico di Francesco Bernardini L'amante del bandito ( Napoli, Bideri, 1899) alla biografia di Pietro Masi da Patricia sulla Vita di Antonio Gasbaroni, (Roma, Perino, 1899) a tutta una serie di ricostruzioni biografiche da quella di E.Morselli e S. De Sanctis, Biografia di un bandito: Giuseppe Musolino, ( Milano, Treves, 1903) a quella di Bruto Amante su Fra Diavolo e il suo tempo, 1796-1806, (Firenze, Bemporad, 1904).
G. Schmitt rifà intanto il verso a Rontini in una raccolta di storie di Briganti celebri, (Napoli, 1905) e nel 1906 Tommaso Claps affida alla voce di una anziana narratrice di Avigliano una serie di storie brigantesche nella raccolta di racconti veristi A pie' del Carmine.Bozzetti e novelle basilicatesi, (Roma-Torino, Roux e Viarengo) e Gaetano Salvemini che in quegli anni dirigeva il quotidiano di opposizione "L'Unità", interviene sul tema del brigantaggio con un'analisi della vita di Michele di Gè, brigante rionerese, L'autobiografia di un brigante, (Roma, Loescher, 1914).
La fortuna del tema continua in una serie di biografie e di saggi che fanno luce anche sulla reazione contadina in Puglia e Antonio Lucarelli scrive il saggio Il sergente Romano, notizie e documenti riguardanti la reazione e il brigantaggio pugliese nel 1860, (Bari, Soc.Tip.Pugliese, 1922).
Ma il fascismo blocca la corrente di rivisitazione della storia nazionale e diventano negli anni del ventennio sempre più rari gli interventi di scrittori e saggisti. Cito la biografia di Stefano Pelloni detto il passatore, (Firenze.Salani, 1931 ) scritta da Eugenio Rontini, un racconto di Leonida Repaci, Santazzo il Tempesta, in Racconti della mia Calabria, ( Milano, Corbaccio-Dall'Oglio, 1931), una vita romanzata di Fra Diavolo scritta da Piero Bargellini nel 1932 (Firenze, Vallecchi) e il dramma Pizzichicchio e Coppolone di Innocente Cicala, rappresentato a Taranto in quegli stessi anni ma rimasto inedito.Le storie di briganti sono troppo vicine a movimenti anarcoidi e delinquenziali, infastidiscono la borghesia italiana e sono pretesti di propaganda per l'opposizione socialista e comunista.
Nel 1942 usciva intanto Signora Ava di Francesco Jovine, un romanzo nel quale con coraggio si raccontano le lotte contadine e antipiemontesi sostenute dai molisani. Jovine persiste nelle analisi sociali raccontando le rivolte contadine del 1920-21 per l'occupazione dei latifondi ne Le terre del Sacramento. Il romanzo vide la luce solo nel 1950, quando lo scrittore era già defunto. Nel 1945 esce intanto Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi.Il romanzo denuncia la lontananza dello Stato dai contadini meridionali e dalla loro condizione di miseria.Lo Stato appare ai contadini come un rapace, si fa vivo attraverso i suoi agenti solo quando c'è da riscuotere tasse o portare via braccia dai campi per destinarle alla guerra.
In un clima di assoluta diffidenza nasceva un romanzo che leggeva finalmente nel brigantaggio una questione sociale e politica e che diceva le cose come stavano: la rivolta dei braccianti meridionali era stata un tentativo di contrastare la conquista del Sud. Nella guerra di conquista si erano fronteggiati un nord ricco e borghese e un sud povero e contadino. Quella dei briganti era stata una resistenza vera e propria e l'unità del paese seppure era avvenuta, aveva pagato un tributo di sangue spaventoso, sparso sia dall'esercito dei piemontesi sia dalle bande dei briganti. I briganti non erano stati quei delinquenti che descriveva la stampa periodica settentrionale ma uomini di un esercito non regolare.Nel 1943, Carlo Alianello pubblicava L'alfiere, prima epopea epica sul brigantaggio postunitario.Il romanzo conoscerà un immediato successo e verrà seguito a distanza di nove anni da Soldati del re, (Milano, Feltrinelli, 1952) e ancora da L'eredità della priora, (Milano, Feltrinelli, 1963), fino a La conquista del sud, che è del 1972 (Milano, Rusconi).
Anche il cinema comincia intanto a guardare al brigantaggio come a un possibile tema da sfruttare e nel 1950 Mario Camerini dirige Il brigante Musolino, interpretato da Amedeo Nazzari, in una ricostruzione neoveristica. E' la storia di Beppe Musolino e della bella Mara a dare vita a un film denso di passione romantica che non è stato realizzato prima per l'assonanza tra il nome del bandito e quello di Mussolini.
Nel 1951 Giuseppe Berto pubblica Il brigante, storia di Michele Rende che durante la seconda guerra mondiale scende in lotta per l'occupazione dei latifondi ma viene ucciso.Un romanzo epico che viene trasformato in film da Renato Castellani.
Riccardo Bacchelli è autore del racconto Il brigante di Tacca del Lupo che viene ripreso dal cinema con la regia di Pietro Germi. Il film è del 1952 e racconta la storia del capitano Giordani che nel 1863 viene inviato in Basilicata a ripulire la regione dai briganti. Germi ne fa una sorta di western, facendosi influenzare da Jhon Ford.
Ma il brigantaggio è un tema ormai fortunato, l'Italia democristiana degli anni sessanta sta operando il grande salto dalla cultura contadina a quella borghese e industriale e mentre si rivisitano molti angoli della nostra storia, si approfitta per analizzare i rapporti tra sud e nord, in un momento in cui migliaia di meridionali lasciano la terra e partono verso il nord industrializzato. Nel 1961 Mario Camerini gira il film I Briganti italiani, con la collaborazione di Mario Monti che pubblicherà una raccolta di biografie celebri in un volume omonimo (Milano, Longanesi, 1967). Quella di Camerini è la storia di un brigante filoborbonico, presumibilmente Giuseppe Caruso, che passa ai piemontesi ma gli verrà impedito di parlare e tradire i vecchi compagni.
L'anno successivo, 1962, Francesco Rosi gira Salvatore Giuliano, un film sulla Sicilia e sugli intrecci tra potere mafioso, politica e potere economico. Siamo finalmente al film di ricostruzione analitica delle cronache e di denuncia, anche se lontani dal brigantaggio postunitario ma tuttavia calati pienamente nelle ragioni della questione meridionale.
In un clima di rivalutazione della questione Giuseppe Selvaggi scrive intanto La madre del bandito, in Sette corrispondenze calabresi, (Cosenza, Pellegrini, 1962). E' la stagione de L'Eredità della priora che nel 63 vince il Campiello e degli studi di Antonio Piromalli e Domenico Scafoglio che nel 65 pubblicano Terre e briganti.Il brigantaggio cantato dalle classi subalterne, (Napoli, Gargiulo) e nel quale si avvalgono delle ricerche condotte per anni dal Pitrè e da Molinaro del Chiaro.Lo Scafoglio scriverà nel 94 L'epos brigantesco popolare nell'Italia meridionale (Salerno, Gentile) e quindi La gloria del patibolo.Santi e briganti nell'epos popolare (10).
Finalmente il tema del brigantaggio non è più un tabù.Grazie agli studi di Aldo de Jaco, Tommaso Pedio, Franco Molfese tutta l'epopea brigantesca acquisisce dignità di rivolta sociale, anarchica e selvaggia.


Nel 1964 Tommaso Pedio pubblica La mia vita tra i briganti (Manduria, Lacaita) diario di Josè Borjes e l'autobiografia di Crocco col titolo Come divenni brigante (Manduria, Lacaita).
Quattro anni più tardi Franca Trapani affronta un aspetto della problematica rimasto fino ad allora ignorato, il ruolo delle donne che accettarono di seguire i compagni sui monti e pubblica alcuni profili ne Le brigantesse, (Roma, Canesi, 1968). Ora si va in cerca di testimonianze dirette, vecchi quaderni, manoscritti, lettere di briganti.Si vuole sapere di più attraverso il racconto dei protagonisti, si prova a dare voce a chi voce non ha avuto mai.E' passato un secolo, gli archivi del Ministero dell'Interno ancora sono chiusi e si vieta la divulgazione dei documenti relativi al brigantaggio. Nel 1971 si ripubblica Il libro della sventura di Michele Di Gè, (Manduria, Lacaita) e nel 1973 Compare brigante di Giovanni Bernardini viene destinato a un pubblico di ragazzi ( Bari, Adda)
E' anche l'anno in cui Giulio Stolfi scrive il romanzo La bandiera sul campanile per raccontare l'insurrezione di Potenza nel 1860 e si ristampa la Ciccilla o i briganti calabresi.Dramma storico tragi-comico in 5 atti, di Luigi Stocchi (Reggio Calabria, L. Ceruso, 1973).
Ora il brigantaggio è diventato un tema eminentemente politico, siamo nel pieno della lotta armata ed è fin troppo facile cercare nel brigante una metafora dell'odierno rivoluzionario. In un clima di caccia alle streghe e preceduti da mille distinguo ogni volta che si torna a parlare di briganti escono alcune biografie, quella di P.Ardito,
Le avventure di Nicola Morra, ex bandito pugliese (Manduria, Lacaita, 1974) e la biografia di Chitaridd il brigante di Matera di Niccolò De Ruggiero, (Matera Meta, 1975) e si riedita l'Antonello capobrigante di Padula con curatela di Carlo Muscetta (Roma, Padula, 1976).Poi, mentre lo Stato attacca i gruppi terroristici e sembra vincere su alcuni fronti, quando ancora non c'è stato l'attacco ad Aldo Moro e alla sua scorta, il tema del brigantaggio approda in teatro e nelle ricerche degli antropologi. Franco Noviello pubblica Il brigantaggio lucano e alcuni frammenti di poesia popolare, (Roma, 1975), Sergio Romagnoli traccia un excursus de Il brigante nel romanzo storico italiano (11), Pietro Basentini pubblica una raccolta di canti popolari sul 1848 e sul 1861 Fanti briganti e re (Potenza, s.t., 1979) e Nicola Saponaro porta in scena Fuori i Borboni che viene rappresentato con la regia di Alessandro Giupponi a Cosenza e a Potenza nel 1976.E' il racconto della vita di Carmine Crocco e dell'insurrezione nel Vulture.Lo spettacolo è tutto dalla parte dei briganti, visti come anarchici e ribelli ai soprusi di un esercito di conquistatori.
Nel 1979 viene realizzato da Giuliano Montaldo un film per la tivù da L'eredità della priora.La reazione dello Stato all'assalto dei gruppi terroristici si è concluso col fenomeno del pentitismo, il paese si avvia a una maggiore quiete e mentre sono i movimenti di delinquenza organizzata a farsi più feroci e determinati, i socialisti di Bettino Craxi rispolverano i temi dell'Unità d'Italia e di Garibaldi conquistatore. In questo clima nascono il Pizzichicchio e Mezzacoppola (12) di Antonio Giovinazzi e il mio Il grassiere (Roma-Bari, Quattrocittà, 1982) portato in scena dal Gruppo Abeliano di Bari, la biografia di Carmine Crocco Donatelli compilata da A.De Leo, Un brigante guerriero, (Cosenza, Pellegrini, 1983) gli studi di G.Guarella su Ciro Annicchiarico e Francesco De Bernardis, (13), la biografia di Fra Diavolo, (Novara, De Agostani, 1985), di G.Dall'Ongaro.
Intanto un nuovo fenomeno politico si va facendo strada nel Nord Italia, è quello della Lega.Si minacciano guerre sante in nome della difesa della razza e dell'economia.Il movimento viene preso sotto gamba da tutti, ma quando cresce, cresce anche la protesta dal Sud e il brigantaggio diventa motivo di contrapposizione dell'orgoglio e della dignità meridionale.Nascono associazioni e persino un partito reazionario che inneggia a Crocco e ai Borboni.Se Lega ci dev'essere ci sia anche un'Antilega o una Lega meridionale.
Salvatore Scarpino, calabrese di Milano, avvia contro le posizioni della Lega una serie di libri tra il pamphlet e l'ironico, da La mala unità.Scene di brigantaggio nel Sud (Cosenza, Effesette, 1985) a Marianna Ciccilla capobanda sulla Sila (14), a Indietro Savoia! (Milano, Camunia, 1991) a Il brigantaggio dopo l'Unità d'Italia, (Milano, Fenice, 1993) e R.Mammuccari pubblica Briganti e brigantaggio.Il brigante Bizzarro, una vita scellerata, (Velletri, Vela, 1985)Arriviamo così al 1987 quando I fuochi del Basento propongono una chiave epica, di riscatto e di conclusione della civiltà contadina.Indicato come il Gattopardo dei poveri dalla stampa francese il libro tende a raccontare sulla scorta del Pani Rossi, di Giambattista Bronzini e di Ernesto De Martino un mondo contadino dominato dalla magia e dalla fascinazione.E' ovviamente una metafora sul sud che ha voglia di uscire dal medioevo ed entrare nella modernità.
I briganti tornano anche ne La baronessa dell'Olivento, come figure romantiche e animatrici di sentimenti del mutamento.Un mutamento che si profila disastroso e che porta al collassamento del Sud e allo sconquasso ambientale e sociale con una modernità fatta di benessere a tutti i costi, consumismo e violenza per l'accaparramento dei beni.Tutto questo è in Ombre sull'Ofanto (Milano, Camunia, 1993).Ma ormai siamo entrati con questi romanzi in una fase diversa dall'analisi sociale ottocentesca e i briganti sono diventati metafora utile a capire il presente. In questa linea si collocano le opere narrative che vengono pubblicate nell'ultimo decennio.
Nel 1988 Mino Milani pubblica Romanzo Militare per Camunia di Milano, un romanzo nel quale la conquista del sud viene narrata da un settentrionale al seguito di Garibaldi.Nel 1989 Nicola De Blasi conduce uno studio sociolinguistico su Gli scritti dei briganti(15) e l'anno successivo A.Cavoli pubblica presso Scipioni di Roma I briganti italiani nella storia e nei versi dei cantastorie
Un'analisi della cultura orale che viene arricchita dalla ricerca di I.Crupi , Il brigantaggio nella letteratura, (Cosenza, Periferia, 1993) e dalla biografia del Sergente Romano di Michele Guagnano (Mottola, s.t., 1993).
Intanto procede anche l'indagine sulle brigantesse e nello stesso anno, il 1997, vedono la luce due studi contemporaneamente su un identico tema, Maurizio Restivo pubblica dei Ritratti di brigantesse (Manduria, Lacaita) e T.Maiorino un volume di Storia e leggende di briganti e brigantesse presso la Piemme di Casale Monferrato.
Nel 1998 Pasquale Squitieri realizza Li chiamavano briganti, un film filoborbonico che intende riaprire la questione dalla parte dei meridionali e contro le ventate di leghismo che affliggono l'Italia. L'assunto è: non saremmo a questo se fossero rimaste le cose com'erano.Ma ormai il brigantaggio è diventato spettacolo e patrimonio culturale dal quale partire per costruire l'identità di un popolo.Lo vediamo con il cinespettacolo della Grancia organizzato da Giampiero Perri, La storia bandita, nel quale si tenta di ricostruire atmosfere e vicende di una storia che ormai è mito, favola e leggenda.
-------------------(1)-Giornali, Napoli, 13 agosto 1672(2)-Il brigante Angiolillo, Venosa, Osanna, 1997, p.21(3)-R.NIGRO, Tradizioni e canti popolari lucani:il melfese, Bari-Melfi, Edizioni Arci-Interventi Culturali, 1976, pp.366-367(4) -Ivi, p.367-368(5) -Cfr. ANTONIO ALTAMURA, I cantastorie e la poesia popolare italiana, Napoli, F. Fiorentino, 1965, pp.13-17;ANTONIO VACCARO, Carlo Gesualdo Principe di Venosa, l'uomo e i tempi, Venosa, Appia, 1982, pp.50 ss.(6)-Napoli, Presso Avallone, s.a, ma 1850(7)-Napoli, Tip.Avallone, s.d., ma 1862.Ora in A.ALTAMURA, cit, pp.283-291(8)-L'opera fu composta tra il 1863 e il 1864. Si tratta di un olio su tela di cm.50 per 105, 5. Venne ribattezzata dal Fattori: "Arresto di briganti" ed esposta presso la Mostra di Torino del 1864 e poi a Firenze come "Agguato contro i briganti".Per queste e altre notizie cfr. ILARIA CISERI, I Macchiaioli, in Pittori e pittura dell'Ottocento italiano, Novara, De Agostini, 1997-98, vol.I, p.86(9)-ILARIA CISERI, op.cit.vol.I, p.83;V.ROMANO, a cura, C.Crocco, Autobiografia, Bari, Adda, 1998, p.13(10)- Ora in Un laboratorio tra i castagni. Teorie e metodi della rilevazione demoantropologica, (a cura di E.Spera e F.Manganelli, Perugia, Arnaud-Gramma, 1996).(11)"Archivio Storico per la Calabria e la Lucania", XLIII, (1975)(12)"Cenacolo", a.XI-XII, (1981-82), n.25(13)"Locorotondo", a.I, (1985), n.0 (14)"Il Giornale", a.XII, (1985), n.170(15) Basilicata", a.XXXI, (1989), nr.9/12


venerdì 14 dicembre 2007

CAUSE DEL BRIGANTAGGIO


Molte e complesse furono le cause del brigantaggio dopo
l'Unità d'Italia. Alla base di esso vi fu soprattutto la triste realtà economico-sociale dell'Italia meridionale e precisamente l'estrema secolare miseria della classe contadina. Nonostante le riforme varate da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino Murat all'inizio del secolo e dai Borboni successivamente, la struttura economico-sociale dell'Italia meridionale era rimasta quella feudale, anzi con il sorgere di un nuovo ceto borghese accanto al vecchio ordine feudale la condizione dei rurali era andata peggiorando. Non che le condizioni del regno fossero del tutto cattive, anzi vi era stato un continuo miglioramento, ma la naturale aridità del terreno, la mancanza di strade, di acque, di capitali ne ostacolavano i progressi. E soprattutto il fatto che la classe degli agricoltori non si avvantaggiava dei miglioramenti faceva sì che i contadini, ignoranti e poveri, giudicassero ogni cambiamento politico esclusivamente da miglioramenti immediati della loro sorte. Già in precedenza vi erano stati segni premonitori di una insopprimibile necessità di riforme economiche e sociali con devastazioni e invasioni di terre. Si ricordi, ad esempio, quel che era successo nell'Alta Valfortore dopo l'editto regio del 1792 relativo alla censuazione di parte del demanio, in Baselice nel 1793 col sindaco Giuseppe Aurelio de Marco e in S. Bartolomeo fino a tutto il 1800, nonché l'atteggiamento dei contadini al tempo del primo brigantaggio. Ora, dopo l'Unità, l'assorbimento dell'economia meridionale da parte del mercato ben più solido dell'Italia centro-settentrionale aggravò la situazione nel Mezzogiorno. Ad aumentare il disagio si aggiunsero delle leggi amministrative - come la leva obbligatoria - e fiscali intempestive. Di questo stato di disagio profittarono gli elementi filoborbonici per far comparire l'Unità d'Italia come la cagione di tutti i mali. Conseguenza prima fu che si determinò, soprattutto nei contadini di tradizionale fedeltà verso il re borbonico, uno stato d'animo di avversione al nuovo governo unitario, avversione acuita anche dai vecchi motivi di contrasto con i "signori" (per lo più liberaleggianti) sul problema della proprietà e dell'uso della terra. Già il 4 agosto del 1860 si erano verificati a Bronte, in provincia di Catania, dei moti contadini, subito repressi dalle forze garibaldine di Bixio e di Francesco Crispi con una serie di fucilazioni sommarie. La situazione peggiorò quando l'esercito garibaldino fu sciolto, mentre l'esercito italiano era insufficiente a fronteggiare le forze austriache sul Mincio, a debellare le superstiti truppe borboniche a Gaeta, a Messina e a Civitella del Tronto e a presidiare l'inquieta area del Mezzogiorno. Per cui la mancanza di forze repressive rese possibile la grande insurrezione contadina nella primavera e nell'estate del 1861. D'altra parte la semplice repressione senza provvedimenti sociali riparatori verso masse rurali che chiedevano pane e lavoro non risolveva il problema. Sarebbero occorse immediatamente vere riforme agrarie, opere di bonifica, migliorie, ma nulla fu fatto per debellare l'estrema disperata miseria dei contadini che era alla base del triste fenomeno. Ci si rese ben presto conto che i nuovi padroni non erano migliori dei precedenti. Donde il crescere del malcontento popolare, malcontento sfruttato abilmente contro il governo unitario. Quando poi ai contadini si unirono elementi del disciolto esercito borbonico, i disertori, i renitenti di leva, i malfattori di ogni specie, si ebbe il grande brigantaggio, un fenomeno organizzato e sistematico che alla protesta economico-sociale sovrappose un significato politico, tendente alla restaurazione della monarchia borbonica. Per sopprimere il brigantaggio il governo unitario deve ricorrere a vere operazioni di guerra. Furono impegnati ben 120000 soldati, la metà dell'esercito regolare! E nell'agosto del 1863 si deve far ricorso a una durissima legge eccezionale di polizia, la cosiddetta "legge Pica", con cui si cercò di colpire soprattutto i complici e i manutengoli. La legge fu resa necessaria dal fatto che la popolazione era rimasta per lo più inattiva o si era mostrata addirittura ben disposta nei confronti dei briganti, mentre nei paesi spesso i nobili legittimisti erano in aperta connivenza con essi e grande omertà regnava tra i possidenti per paura di ricatti (1).

1. Sul brigantaggio si veda G. MASSARI E S. CASTAGNOLA, Il brigantaggio nelle provincie napoletane. Relazione del deputato Massari letta alla Camera dei deputati nel Comitato segreto dei 3 e 4 maggio 1863. Napoli, 1863; F. MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l'Unita', Milano, 1964 (a p. 372 è menzionato Antonio Secola di Baselice); C. CESARI, Il brigantaggio e l'opera dell'esercito italiano dal 1860 all 870, Roma, 1920; A. PERRONE, Il brigantaggio e l'Unita d'Italia, Milano, 1963; A. DE IACO, Il brigantaggio meridionale, Roma, 1969. Sul brigantaggio in Valfortore si veda: A.S.N., Brigantaggio, fascio 4; L. SANGIUOLO, Il brigantaggio nella provincia di Benevento, 1860-1880, Benevento, 1975; G. MASCIOTTA, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, II, Napoli, 1915, pp. 284; A. ZAZO, Gli avvenimenti del giugno-settembre 1861 nel circondario di S. Bartolomeo in Galdo, in "Samnium", 1952, p. 1 ss.; Pel Barone Rosario Petruccelli, giudicato ed assolto dal Tribunale Militare di Caserta, di autore anonimo, Napoli, 1864; D. DE NONNO, Poche parole in difesa della Guardia Nazionale di Baselice, Napoli, 1864; A. FUSCHETTO, Fortore di ieri e di oggi, Marigliano, 1981, passim; M. DE AGOSTINI - G. VERGINEO, Il Sannio brigante nel dramma dell'Unita italiana, Benevento, 1991.
Fiorangelo Morrone

EMIGRAZIONE E QUESTIONE MERIDIONALE

L’insieme di tutto quel complesso di situazioni sorte con la unione delle regioni meridionali al resto dell’Italia , pose le fondamenta di quell’ampio problema che viene identificato con il termine "Questione Meridionale". Dopo l’euforia prodotta dall’impresa del Risorgimento, politici ed intellettuali cominciarono a domandarsi e a considerare il giovamento prodotto da tale azione. L’Italia, appena unificata, cominciò a dividersi in due correnti d’opinione, entrambe sotto l’egida di una risposta sostanzialmente negativa: gli intellettuali meridionali non poterono fare a meno di considerare l’inasprimento insopportabile del gravame tributario, la rigidezza amministrativa irriguardosa di mentalità e tradizioni, la legislazione complicata e spoliatrice; gli intellettuali settentrionali furono pronti ed espliciti nel ribadire e manifestare la loro delusione e la quasi irritazione nel vedere aggiunto al loro territorio, come un "peso morto", una massa di popolazione povera, misera, e soprattutto in condizioni impressionanti di arretratezza civile. La questione meridionale comincia ad essere "documentata " sin dal 1861, P. Villari, napoletano e formatosi alla scuola del liberalismo inglese, inviava al quotidiano lombardo "La perseveranza" corrispondenze in cui documentava attraverso le miserie e l’abominevole sofferenza della popolazione a lui familiare, l’assenteismo e le deficienze del nuovo regime statale A questi scritti, raccolti in un opuscolo dal titolo "Prime lettere meridionali", ne seguirono altri "Le seconde lettere meridionali" del 1875, in cui l’interesse morale e sociale era accentuato. Lo studio critico del Villari è diretto ai rapporti tra il Mezzogiorno e lo Stato con particolare riferimento alla funzione di stasi che le nuove istituzioni avevano assunto nel Mezzogiorno. Ritiene che nel Mezzogiorno manchino le condizioni essenziali per la realizzazione di un libero sviluppo, dal momento che si è giunti all’Unificazione dell’Italia con una rivoluzione politica che non è scaturita dalla trasformazione sociale derivante dalla presa coscienza delle reali condizioni in cui versavano le masse popolari e dal conseguente desiderio di modificare le situazioni, per cui il Meridione pur avendo cambiato governo e amministrazione , restavano immutati gli antichi privilegi che immobilizzavano l’ordinamento sociale perseverando negli atavici costumi semifeudali (1). P. Villari fa notare che il governo costituzionale era sostanzialmente costituito dalla borghesia: "La classe dei proprietari, in mancanza d’altro divenne la classe governante" (2), indifferente e disinteressata nei confronti delle classi sociali meno abbienti; richiama l’attenzione sulla necessità di una riforma iniziata e diretta dal governo al fine di evitare sommosse popolari e superare il sentimento di opposizione che andava crescendo nelle province Meridionali, riforma indispensabile al progresso civile dell’Italia intera (3). Le "Lettere meridionali" rendono atto dei problemi del Mezzogiorno e stimolano la conoscenza della realtà al fine di comprendere i bisogni e cercare i rimedi dell’evidente disagio delle popolazioni. I primi a parlare della precaria condizione delle popolazioni lucane dopo l’Unità di Italia, certificandola con dati, furono L. Franchetti e S. Sonnino che effettuarono una inchiesta sulle condizioni di miseria, esponendo in modo realistico le cause dell’arretratezza meridionale contro la sommaria conoscenza ed i pregiudizi della classe politica. Già nell’autunno 1874, Franchetti nei suoi "Appunti di viaggio, Calabrie e Basilicata" rende nota la deplorevole condizione di disagio socio-economico dei contadini: malnutriti, malvestiti, male alloggiati e il più delle volte indebitati per far fronte alle spese di messa a coltura di un fondo che garantisse la speranza della sussistenza (4). Nello status di debitore perpetuo, generalmente verso il proprietario del suolo coltivato, e di dipendenza assoluta da questi per il vitto giornaliero, è facile dedurre il ruolo personale di assoggettamento che il contadino stabilisce col proprietario (5). Unica reazione a questa situazione di brama esistenza è la possibilità di emigrare, il Franchetti attesta: "Nel 1872 emigrarono in Basilicata 5.545 persone, di cui 5.150 per l’America. Degli emigranti, 1.579 erano artigiani. 3.685 contadini. Nel 1873 emigrarono 3.891 persone, delle quali 3.634 per l’America, 815 erano artigiani, 2.561 contadini. La popolazione della provincia è di 510.543 abitanti"(6). E domandandosi se, riguardo all’emigrazione, sono maggiori i danni o i vantaggi riferisce che i contadini considerano l’emigrazione un bene, e quasi tutti i proprietari " ...malgrado la loro antipatia non dissimulata per l’emigrazione e i loro lamenti per i danni che ne ricevevano, mi hanno confessato che la maggior parte dei contadini tornati d’America dopo 3 o 4 anni, han riportato economie: in generale dalle mille alle quattromila lire..." (7). Egli nota che gli emigranti ritornati in paese riattano prima di tutto la casa, o la comprano se non l’hanno, comprano qualche volta un pezzetto di terra, quando il prezzo non è troppo esorbitante, e poi, speso ritornano in America a guadagnare nuovi denari. Ritiene vantaggiosa l’emigrazione "...perché le braccia che tornano non lavorano più per conto dei proprietari se non a condizioni migliori, e se non le ottengono, preferiscono tornare in America. D’altra parte, le braccia rimaste disponibili, meno numerose di prima, hanno pure modo di farsi pagare meglio" (8). E conclude sollecitando il governo a non impedire l’emigrazione ma a tutelarla con opportune garanzie dal momento che l’emigrazione è fonte di benessere per chi emigra e strumento di sviluppo sociale per l’intera popolazione, dal momento che potenzia i fattori della produzione e rende consapevoli delle proprie capacità (9). Nel 1870 venne svolta un’indagine sul ruolo di stimolo all’emigrazione da parte degli agenti di navigazione, accusati di proclamare di villaggio in villaggio l’esistenza di un luogo, l’America, dove era possibile rifugiarsi per sfuggire alla fame e alla miseria, dove vi erano ricchezze ad ogni passo e lavoro per tutti, dove esisteva la possibilità di diventare ricchi. L’indagine confermò la funzione fomentatrice degli agenti di navigazione. Si giunse alla distinzione tra emigrazione "artificiale", provocata da "eccitatori" e pertanto da scoraggiare, ed emigrazione "spontanea", da tollerare o favorire. Nel 1872, la Sinistra meridionale, avvalendosi dei deliberati delle Camere di Commercio di bari, Catanzaro e Foggia, e dei deliberati delle Camere Agrarie di Vallo Lucano, Sala Consilina e Lagonegro, fa dello spopolamento delle campagne, del fiscalismo esasperante e della delinquenza dilagante il suo programma politico di battaglia contro la Destra (10). La Circolare Lanza, del 1873, dava istruzione ai Sindaci affinché negassero il nulla osta all’espatrio ai giovani di leva, ai militari senza congedo assoluto, agli inabili e a chi era sprovvisto di mezzi (11). L’attacco del Franchetti contro l’azione di impedimento all’emigrazione effettuata dal Governo viene ribadito, con maggiore enfasi, nella conclusione di un libro in cui espone i risultati di osservazione dell’indagine scaturita dal suo viaggio, nell’autunno 1874, dagli Abruzzi alla Calabria(12): si chiedeva che cosa avesse fatto , sino ad allora, lo Stato in quella parte d’Italia, e rispondendo alla domanda scagionava lo stato dalla responsabilità della mancata trasformazione economico e sociale delle province meridionali, ma lo riteneva responsabile di non avere usato tutti i mezzi che poteva usare per dare la prima spinta ai miglioramenti e per aiutarle. Aggiungeva che se lo stato aveva delle colpe, le divideva con tutto il rimanente della nazione che aveva fatto affidamento sulla concezione che la libertà e il progresso risanassero da ogni male. Comunica che l’intendo delle le sue indagini era quello di attirare l’attenzione del Governo e delle Nazioni sulle province meridionali, di voler stimolare la conoscenza diretta di quei luoghi, affinché la presa d’atto delle condizioni socio-economiche delle popolazioni innescasse, nell’opinione pubblica, la percezione della gravità del problema e ne stimolasse la ricerca e l’attuazione dei possibili rimedi (13). Intanto, il problema dell’emigrazione assume sempre maggiore rilevanza a livello nazionale. Il governo sensibile alla crescente ondata di espatri decise di dare il via ad un’associazione per il patronato degli emigranti, sull’esempio di altri paesi europei interessati al fenomeno dell’emigrazione. Venne fondata a Roma il 15 dic. 1875 la Società di patronato per gli emigranti italiani (14). Intenzione primaria, per il governo, era quella di tutelare gli emigranti dall’attività speculativa degli agenti di emigrazione diffusi soprattutto nelle aree più povere del mezzogiorno. Franchetti si adoperò, insieme con Sidney Sonnino, per svolgere una vera e propria inchiesta in Sicilia nel 1876, che mise a fuoco in modo realistico le cause dell’arretratezza meridionale contro la sommaria conoscenza ed i pregiudizi della classe politica (15). Scrive il Sonnino, nel 1879, che chi si opponeva al libero corso dell’emigrazione cedeva dall’altra parte alle pressioni dei contadini che chiedevano lavoro ai municipi, incoraggiando così il socialismo, minando l’ordine pubblico e gonfiando le spese improduttive e il disordine economico, mentre imperversavano pellagra e idee sovversive. "L’emigrazione è uno dei pochi mezzi efficaci, se non a togliere, almeno ad allontanare i pericoli sollevati dalla questioni delle nostre plebi agricole che ingigantisce dinanzi a noi e dinanzi alla quale chiudiamo gli occhi. L’emigrazione migliora gradatamente le condizioni fatte ai lavoratori della terra per la diminuita concorrenza delle braccia, e, quando ben diretta, può inoltre procurare al paese nuovi capitali, se gli emigranti ritornano, influenza gli sbocchi commerciali all’estero, se si stabiliscono definitivamente nel luogo di emigrazione" (16). Lo stesso parere viene espresso attraverso l’"Inchiesta agraria sulle condizioni della classe agricola" promossa dal Parlamento nel 1877 e pubblicata nel 1884 da S. Jacini, presidente della Giunta (17). Franchetti e Sonnino non divulgarono solo attraverso studi, scaturiti dai loro viaggi d’inchiesta, le misere condizioni del Mezzogiorno ma la fondazione della Rassegna Settimanale diede risonanza nazionale ai problemi del Mezzogiorno. Alla rivista collaborò con le sue corrispondenze sociali da Napoli, G. Fortunato, lucano. Il Mezzogiorno diventa il baricentro dal quale dipartono e convergono tutte le tematiche del suo pensiero politico. Essendo lucano non poté fare a meno di considerare le condizioni reali della sua terra. La Basilicata appariva come una provincia spopolata situata in un territorio formato da valli paludose e malariche e da altipiani sterili e selvaggi, senza infrastrutture e priva di industrie e di commerci, racchiusa nell’alpestre corona delle sue montagne simboleggiava l’estremo limite della vita sociale. Comunicava che il Mezzogiorno costituiva: "... quello che ne ha fatto la natura ingrata e la sorte avversa: una gran causa di debolezza, politica ed economica, per tutta quanta l’Italia, il cui destino è quindi riposto nella resurrezione del Mezzogiorno" (18). L’emigrazione agricola risulta il principale sintomo di questa debolezza (19) e dopo averne documentato le cifre allarmistiche sollecita l’attenzione governativa al problema (20). G. Fortunato in modo coraggioso ed aperto rivolgeva una critica continua alla classe della borghesia possidente cui egli stesso apparteneva. Alla ricerca delle cause sociali della miseria del Mezzogiorno rivolge un sostanziale addebito di colpevolezza alla borghesia, responsabile della mancanza del sentimento sociale e dell’interesse alla trasformazione agraria; essendosi privata del capitale circolante con l’acquisto dei beni ecclesiastici e costretta a ricorrere all’ipoteca e all’usura per far fronte ai pagamenti viveva in condizioni di penuria. Le ristrettezze di questa classe si proiettavano di riflesso sulle classi meno abbiente costrette a ricercare la sussistenza verso altri lidi (21). Il Fortunato esprime la necessità di " uno studio minuto sulle cause e su fenomeni dell’emigrazione che ha bisognoso di essere guidata e ordinata" (22). Nel programma presentato agli elettori di Melfi (22 MAGGIO 1880) per la sua prima candidatura alla Camera dei Deputati, così prospetta il problema della "questione meridionale" : "...è sempre vero uno degli ultimi sagaci detti dal conte di Cavour, ossia, che armonizzare il nord con il sud della penisola è impresa più difficile che aver da fare con l’Austria e con la Chiesa; perché la nota caratteristica della nuova Italia è sempre quella di un paese di grande povertà naturale, con popolazione soverchiamente abbondante; perché la miseria domina nei ceti rurali, non più rassegnati, non più sommessi alla borghesia, o incosciente o curante solo dell’utile proprio, e il carico delle imposte non equamente ripartito, isterilisce per i meno agiati e le provincie più grame, che son le nostre, ogni fonte di risparmio" (23). Riprendendo il discorso qualche mese dopo, al II Congresso delle Società Cooperative di Credito, tenutosi a Bologna il 18 ottobre 1880, al quale, per la prima volta, parteciparono due delegati meridionali in rappresentanza della banche mutue popolari di Rionero in Vulture e di Nereto degli Abruzzi , precisò e sottolineò l’esistenza di "due Italie in una": la più popolata era misera e priva di capitali, sconosciuta ai partecipanti del Congresso (24). La "questione lucana" assurgeva a notorietà di pubblico tramite pubblicazioni su riviste e quotidiani e in sede parlamentare a seguito delle interpellanze di Mango e Ciccotti, e soprattutto di Torraca del 20 giugno 1902 (25), fece sì che il Presidente del Consiglio bresciano Giuseppe Zanardelli, volendo di persona rendersi conto delle così gravi realtà denunziate, decidesse di visitare la regione. Il problema giunge a chiarezza di coscienza e di definizione, iniziandone la discussione in termini politici e storici, fino a farla riconoscere come la questione massima dello Stato italiano unitario(26). La questione meridionale deve al Fortunato l’affermazione e la messa in discussione, anche come deputato alla camera dal 1880, di "due verità": quella delle "due Italie" fisicamente diverse e quasi opposte e consequenzialmente diverse nel processo della loro storia; e quella, contrastante in pieno con la leggendaria magnanimità della natura mediterranea culla della Magna Grecia e della sua splendida civiltà, della infelicità produttiva di gran parte del suolo del Mezzogiorno, geologicamente dissestato e climaticamente soggetto a un regime di aridità e di incostanza ed imprevedibilità delle precipitazioni atmosferiche. Il Mezzogiorno come fulcro del pensiero politico del Fortunato riceve massima espressione nel libro "La quistione Meridionale e la riforma tributaria", pubblicato nel luglio del 1904 (27). Ribadisce la sproporzione che esiste tra il Nord e il Sud della penisola "nel campo delle attività umane , nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione..." (28). L’inferiorità del Mezzogiorno è dovuta soprattutto alla sua geografia, un paese che condizioni climatiche, pedologiche e topografiche condannano alla miseria: "La questione meridionale è quella, puramente e semplicemente, di un paese che dalla geografia e dalla storia fu per secoli condannato alla miseria ..." (29). Ai fattori fisici, si aggiungevano ancora cause storiche e politiche: l’Italia meridionale era rimasta organizzata feudalmente, le cause e gli effetti dei fattori naturali si legarono inestricabilmente con le sorti politiche, la grande quantità di imposte abbattutasi sul Sud limitava ulteriormente la produzione." sistema tributario e regime doganale: ecco le due grandi pregiudiziali della questione Meridionale..." (30). Come rimedio alle naturali calamità Fortunato invocava la riforma tributaria, mediante "riduzione di imposte ed aumento del capitale circolante" (31), nella speranza che l’agricoltura, unica fonte di reddito meridionale, potesse tornare allo splendore del passato risolvendo il problema della miseria che non scaturiva dall’assenza di una equa distribuzione ma da una deficiente produzione della ricchezza; la miseria scaturiva dall’impossibilità di ripartire quello che non c’era (32). Allo stato egli chiedeva soltanto una politica di giustizia e di onestà che correggesse la condizione di sperequazione tributaria stabilitasi dopo l’unificazione tra il Nord, in prevalenza industrializzato, e il Sud esclusivamente e miseramente agricolo (33); chiedeva la revisione dei patti di economia protezionistica ricadenti in ultimo a totale discapito della classe contadina meridionale: "Tutti gli elementi della vita economica sono appena sufficienti nel mezzogiorno a contrastare il trionfo della morte" (34). Rende atto che da ciò derivano le ragioni vere dell’emigrazione transoceanica: "Se non ci fosse l’America, se i nostri contadini non le chiedessero pane e lavoro, che sarebbe di noi? E se un giorno cessasse cotesto benefico flusso emigratorio...?"(35). Solo dopo aver risolto il problema tributario lo stato avrebbe potuto cimentarsi con la soluzione dei singoli problemi che articolavano e complicavano la questione meridionale: sistemazioni idrogeologiche, malaria, viabilità, specialmente ferroviaria. Ma la soluzione a questi problemi non poteva scaturire da "le cosi dette leggi speciali di favore, goffe raffazzonature, le quali hanno solo un’attenuante, che è quella di essere ineseguibili, meno che nello sperpero..."(36). Il problema dell’emigrazione riceve un posto di grande rilievo nella letteratura meridionalistica. Sulle pagine della Rassegna settimanale appare un interessante contributo di G. Fortunato: "L’emigrazione e le classi dirigenti" a difesa dell’emigrazione e in risposta contraddittoria alle tesi pronunciate dall’onorevole Antonibon nella seduta della Camera del 12 febbraio 1879. Scrive Fortunato: "L’on. Antonibon deplora il ‘morbo morale’ dell’emigrazione , ma non risulta chiaro dal suo discorso quali siano gli elementi che determinano in essa il carattere morboso...lamenta questa ‘diserzione’ per la quale i contadini ‘abbandonando le campagne improvvisamente, il paese perde braccia e capitali fruttiferi, si rompono i patti colonici, si stralciano i debiti con i proprietari, e, peggio ancora, la svogliatezza nel lavoro e la insubordinazione si manifestano in tutti i paesi dove si è infiltrata questa febbre’. Dall’altro lato egli si duole nel vedere che i contadini ‘emigrano e non conoscono in che condizione si troveranno, poiché credono alle promesse degli agenti di emigrazione e chiudono l’occhio ad ogni osservazione di chi li invita sulla via di riflettere e di sapere che fanno’ " (37). Da queste parole si evincono, secondo Fortunato, le vere ragioni che sostengono le tesi contro l’emigrazione: la conservazione di particolari interessi di classe. L’abbandono delle campagne, la rottura dei patti colonici, l’introduzione nelle campagne dell’insubordinazione e della svogliatezza, in sintesi: la rottura degli equilibri di sfruttamento medioevale, sostenuti a proprio abuso e vantaggio dai proprietari terrieri e avallati dalla classe dirigente. Fortunato non può fare a meno di far notare che l’emigrazione non può in nessun caso essere attribuita all’ingenuità dei contadini "tratti in inganno" dall’operato degli agenti di navigazione e quanto meno dall’ingordigia di guadagni e di altri bisogni fittizi indotti. Causa dell’emigrazione è la povertà: le condizioni di estrema miseria in cui si trovano relegati i contadini. Ed è proprio questa analisi attenta e la considerazione di alcuni principi giuridici ed etici connessi alla libertà individuale nonché gli effetti positivi che l’emigrazione esplicherebbe, che motiva Fortunato a ritenere che l’intervento dello Stato debba essere di guida, di sostegno e di orientamento (38). Oltre che come antidoto alla povertà che caratterizzava la vita di quelle "popolazioni ignoranti, sofferenti e rinchiuse entro i confini di una patria ingrata" (39) e quale prospettiva di riscatto sociale per migliaia di contadini che lasciavano la loro terra, l’emigrazione andava difesa per i suoi effetti positivi sulla nazione nel suo complesso, sulle singole province e sulla popolazione che restava. I contadini che restavano traevano vantaggio dall’emigrazione per via degli aumenti dei salari determinati dalla carenza di manodopera e dalla minore concorrenza . Gli effetti positivi per la nazione nel suo complesso e per le singole province andavano individuati nelle ingenti rimesse economiche e nelle relazioni commerciali che si andavano a stabilire con i paesi di destinazione, a ciò andava aggiunto la funzione di ammortizzatore sociale che l’emigrazione svolgeva nel contenere e limitare i rischi di sommosse sociali ed il relativo risparmio per investimenti devoluti al ripristino dell’ordine pubblico. La concezione del Fortunato a proposito dell’emigrazione viene sintetizzata e rimarcata da una sua esplicita formulazione: "l’emigrazione ci ha purgati della vergognosa piaga del brigantaggio... e, in tutti i casi, un male, direi quasi provvidenziale, se esso ci libera, com’è innegabile, da guai anche maggiori." (40). La reazione politica all’emigrazione, in un primo momento si orienta verso la tolleranza, concependo l’emigrazione un surrogato della carità pubblica e uno strumento per liberarsi della zavorra sociale. L’implicita "via libera" data dalla classe dirigente italiana a una emigrazione di massa fu innanzitutto una operazione di immediato risparmio economico (41). Se G. Fortunato per amore della sua terra natia fu il primo ad esprimere la volontà di rinnovamento morale e civile di quelle regioni, un altro lucano né seguì le orme Francesco Saverio Nitti. Suo maggior merito, riconosciutogli dallo stesso Fortunato, nel volume "La quistione agraria e riforma tributaria" fu quello di aver demolito la leggenda secondo cui il Sud pagava poche imposte e conteneva grandi ricchezze. Dimostrò, tra le altre cose, che la Basilicata aveva più espropriati per debiti di imposte che tutta l’Italia del Nord e quella centrale (42). La concezione del Nitti a proposito della questione meridionale fu di grande importanza prima ancora che per il contenuto delle soluzioni da lui auspicate, per il metodo con cui affrontò unitariamente i problemi del Mezzogiorno come aspetti particolari, ma collegati, del grande problema dello sviluppo economico e della trasformazione industriale dell’intera nazione. La sua indagine valuta condizioni obiettive e realistiche della società, e la questione sociale assurge a nucleo del paradosso dei dislivelli economici nazionali. Con i suoi scritti dimostra che l’arretratezza del Mezzogiorno, non dipende da mali antichi scaturenti dal secolare intreccio di condizioni geografiche avverse , come affermava il Fortunato, ma è direttamente correlata ai fenomeni economici e finanziari sviluppatesi con il processo di Unificazione (43). Nel volume Nord e Sud (1900) Nitti svolge un esame attento del bilancio dello Stato italiano degli anni successivi all’unità. La sua oggettiva concretezza gli fece intuire che la soluzione dei problemi nazionali era da ricercarsi nella prospettiva di una politica economica fondata sul principio di una migliore distribuzione del reddito nazionale. Proclamava che l’esistenza del povero era di per sé l’insidia al ricco e non per ragioni morali bensì politiche. Egli era fermamente convinto che non si potessero fondare le condizioni di grande sviluppo dell’economia nazionale se il Mezzogiorno non diveniva parte attiva di sviluppo. La questione meridionale veniva percepita come causa ed effetto del mancato sviluppo dell’Italia intera. Egli sosteneva che la trasformazione economica del Nord non era dovuta a particolari meriti, ma frutto e conseguenza di condizioni storiche e geografiche: vi era maggiore cultura e vi era la pratica del governo rappresentativo. Egli aveva accertato che al momento dell’unione l’Italia meridionale aveva tutti gli elementi per trasformarsi: possedeva un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, ciò che le mancava era ogni educazione politica; ciò che bisognava fare era educare le classi medie e formare, soprattutto, l’ambiente politico. Era necessario ricostruire il territorio, fermando il flagello della frana rifacendo il bosco, utilizzare le acque. Ma, soprattutto educare l’uomo del Sud poiché alla sua incoscienza dei suoi stessi mali, è dovuto anche in parte, l’abbandono del Mezzogiorno; bisognava formare la coscienza collettiva, eliminare quanto di antisociale persisteva, non per innata retrività ma per colpa della miseria, dell’isolamento, dell’oscurantismo in cui queste popolazioni sono state forzatamente immerse (44). Con le sue analisi statistiche riuscì a dimostrare che quasi tutte le Regioni meridionali , in proporzione alla loro ricchezza, pagavano più tasse delle Regioni Settentrionali e ricevevano meno in termini di sussidi e aiuti statali. Il suo Meridionalismo non era una battaglia contro la povertà delle province del sud, ma per la ricchezza di tutto il paese, per l’equilibrio dei fattori produttivi, per la maggiore produttività della stessa agricoltura meridionale. Anche per Nitti il problema meridionale era un problema nazionale, egli sosteneva che la politica italiana non poteva rinnovarsi fino a quando l’atteggiamento del governo verso il Mezzogiorno non sarebbe stato diverso. La stessa legge per la Basilicata era l’effetto di una improvvisazione e soprattutto di una scarsa conoscenza dei problemi della regione; egli era dell’avviso che non si potessero fare delle leggi speciali per una parte della popolazione, ma si dovevano modificare le leggi generali in guisa da eliminare le ingiustizie più gravi e limitare le cause presenti di depressione nel Mezzogiorno. Nitti intravide nella scoperta dell’elettricità la soluzione del problema della miseria italiana. I terreni scoscesi, accidentati e le frequenti cadute di acqua erano proprio ciò che occorreva per creare ingenti forze idrauliche. L’energia delle acque, apportatrice di morte e rovina si sarebbe trasformata in energia elettrica trasformando l’Italia in un grande paese industrializzato. Ecco cosa lo Stato avrebbe dovuto compiere per sollevare le sorti del Mezzogiorno: sfruttare le sue risorse idriche per creare grandi centrali elettriche. Il problema delle acque, univa, condizionandoli, i vari problemi delle bonifiche, della malaria, dei rimboschimenti, della sistemazione dei fiumi e torrenti: perseguendo una politica per la produzione dell’energia idroelettrica, tutti gli altri problemi sarebbero venuti meno e si sarebbero create le basi all’industrializzazione del Mezzogiorno, facendo tornare le regioni interessate allo splendore di un tempo. Non più quindi, una visione fatalisticamente pessimista, ma quella di uno Stato propulsore, attivo teso a mutare il volto del Sud. La questione meridionale secondo Nitti non si risolveva solo ed esclusivamente risolvendo una questione economica di carattere generale, ma anche e soprattutto facendola diventare una questione di educazione e di morale. La questione meridionale si sarebbe risolta "cambiando i meridionali". Nitti auspicava che il nostro paese si trasformasse da esportatore di uomini, in esportatore di merci; che esso diventasse cioè un grande paese industriale (45). Nel 1888 dedica un libro a G. Fortunato dal titolo emblematico: "L’emigrazione italiana e i suoi avversari"; avvalendosi delle considerazioni sull’argomento già evidenziate dal Fortunato (46), Nitti si dichiara favorevole all’emigrazione e passa in rassegna, confutandole, le maggiori considerazioni dei cosiddetti avversari. Il libro assume una valenza politica attestandosi come contrapposizione sia al disegno di legge speciale sull’emigrazione presentato il 15 dic. 1887 dal Presidente del Consiglio, nonché Ministro dell’Interno, on. Crispi e sia alle argomentazioni sfavorevoli all’emigrazione sostenute da Carpi, Florenzano, Ferrara ed altri secondo le quali l’emigrazione avrebbe comportato effetti negativi e sarebbe sorta per cause fittizie alimentate dagli agenti di navigazione. L’intervento di Nitti confutava principalmente l’art. 5 del disegno di legge presentato da Crispi che appariva una aperta violazione alla libertà individuale concedendo al Ministero dell’Interno, quando riteneva esagerata l’emigrazione di una provincia, di non concedere licenze agli agenti, e, vietando gli arruolamenti, sotto qualunque pretesto, arrestare l’emigrazione. Egli ritiene che gli effetti negativi che erano stati attribuiti all’emigrazione non trovavano alcun riscontro nella realtà, la negatività scaturiva da analisi del problema non adeguate e ispirate da idee preconcette poste a difesa di specifici interessi di classe, e ciò era confermato anche dalla demagogia che veniva impiegata ricercando le cause del fenomeno emigratorio (47). Le istanze demografiche circa lo spopolamento del territorio, quelle economiche circa l’abbandono e la svalutazione dei terreni, quelle umanitarie circa le cattive condizioni degli emigranti all’estero, quelle giuridiche circa i disegni legislativi europei, vengono prese in considerazione per essere sistematicamente smentite alla luce di dati reali. Nitti dimostra che i timori legati allo spopolamento erano del tutto infondati in quanto in Italia vi era un alto tasso di fecondità ed un basso tasso di mortalità. Questi due fattori in concomitanza al rientro di molti emigranti avrebbero concorso a garantire l’equilibrio demografico. Quanto poi ai danni economici, all’aumento dei salari e alla svalutazione dei terreni, Nitti dichiarava che nessuna documentazione o atteggiamento reale rilevava questa situazione. In riferimento alla constatazione che l’emigrazione non riusciva di fatto a migliorare la condizione degli emigranti che spesso erano costretti a vivere all’estero gravi situazioni di marginalità economica e sociale, Nitti faceva notare che ciò poteva essere accaduto negli Stati Uniti dove vi era la grande concorrenza degli emigrati irlandesi, inglesi e tedeschi, ma non era così per gli italiani emigrati nell’America del Sud o in altri territori dove la concorrenza lavorativa era minore. Contrariamente a quanto veniva affermato o supposto riguardo alla legislazione delle maggiori regioni europee, Nitti faceva notare che tale legislazione era favorevole all’emigrazione e perfettamente aderente ai principi giuridici, politici ed etici connessi con la libertà individuale. Alla ricerca delle cause dell’emigrazione e per confutare le idee preesistenti, Nitti esplicita la sua concezione causale ascrivendo lo stato della situazione alle condizioni economiche, politiche, al rapporto tra le classi, all’assetto ed alla distribuzione fondiaria. Ed è proprio agli interessi dei proprietari terrieri che va attribuita, secondo Nitti, in sintonia con le conclusioni di Fortunato, la lotta politica compiuta contro l’emigrazione. Egli vede nell’emigrazione una "una potente valvola di sicurezza contro gli odi di classe"(48). Secondo Nitti l’emigrazione non è altro che una reazione dei contadini all’azione di sfruttamento e alle condizioni di generale e diffusa precarietà. Una reazione spontanea, non indotta dagli agenti di navigazione , ma piuttosto provocata e stimolata dal persistere di rapporti di dipendenza personale all’insegna del feudalesimo. Una reazione inevitabile e inderogabile: "per molte province dell’Italia meridionale l’emigrazione è una necessità, che viene dal modo come la proprietà è distribuita...volerla sopprimere o limitare... è atto ingiusto e crudele...perché dove grande è la miseria e dove grandi sono le ingiustizie che opprimono ancora le classi più diseredate dalla fortuna, è legge triste e fatale: o emigrati o briganti" (49). Nitti afferma che l’emigrazione italiana dopo una flessione avutasi negli anni dal 1860 al 1867, dato che dimostrerebbe che il brigantaggio attirò, in questo periodo di massima espansione, molti di coloro che sarebbero stati costretti a sopravvivere lasciando la patria con l’emigrazione, aumentò rapidamente e notevolmente dopo la repressione del brigantaggio. Vietare l’emigrazione sarebbe stato un’attribuzione di colpa verso lo Stato, una testimonianza di insensibilità, un’assumersi la responsabilità e farsi carico delle condizioni esasperanti della miseria dilagante e della reazione violenta della popolazione, prevedibile e sanguinaria: il brigantaggio. E’ questa la formulazione più espressiva ed efficace del Nitti a proposito dell’emigrazione. "O emigranti o briganti", è la sintesi di tutta la sua concezione sull’argomento: l’emigrazione non può essere impedita perchè ad essa l’unica alternativa di sopravvivenza è il brigantaggio, essa è "una necessità ineluttabile" e per arginare la situazione poco proficue risultano le azioni di bonifica del territorio per ampliare i fondi coltivabili, i programmi di modernizzazione per aumentare la produttività dell’agricoltura che procedono in maniera lenta e non sono opere brevi, "e intanto la nostra popolazione cresce e il disequilibrio aumenta....la sola , la grande valvola di sicurezza è l’emigrazione"(50). Le concezioni e le prese di posizione argomentate in "L’emigrazione italiana e i suoi avversari" furono riprese e sostanziate dalle ricerche sul campo svolte per l’"Inchiesta parlamentare del 1907 sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia". Nitti fu il relatore per la Basilicata e la Calabria ed ebbe modo di proporre l’alleanza del grande capitale del Nord con i disoccupati del Mezzogiorno. L’Inchiesta testimonia il dispiegarsi di un nuovo interesse per il Sud. L’acquisita documentazione tramite l’intervista diretta con contadini proprietari e amministratori consente a Nitti di approfondire e allargare il tema dell’emigrazione. "In queste provincie l’emigrazione è il fenomeno che sovrasta tutti gli altri: Non vi sono che poche leghe, non vi sono scioperi, non vi sono forme di lotta industriale. Chi è scontento, se può, va in America; se non si rassegna a soffrire" (51). Nitti non può fare a meno di notare che il contesto sociale del Mezzogiorno era diviso tra la grande miseria dei braccianti, costretti perciò ad abbandonare il proprio paese, e il parassitismo redditiero delle classi dirigenti, il quale diventa il bersaglio polemico che permette di considerare l’emigrazione un bene, poiché essa, benché causata dalla miseria, rappresentava un fattore di trasformazione e di miglioramento delle condizioni di vita testimonianza dello spirito di intraprendenza all’insegna della diffusione della civiltà, seppure tra grandi sofferenze (52). L’agricoltura del Mezzogiorno necessita del sostanziale intervento dello Stato per accrescerne la produttività: rimboschimento, lotta alla malaria, nuova politica tributaria, ricostruzione dei demani comunali e istruzione pubblica, ma in attesa dell’auspicato intervento dello stato è intervenuta spontaneamente una causa modificatrice: l’emigrazione (53). Le modifiche più importanti erano rappresentate dalla diminuzione della manodopera disponibile con conseguente diminuzione della disoccupazione e crescita dei salari con consequenziale miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, il ribasso dei canoni di fitto delle terre, l’agevolazione delle trasformazioni agricole con la decurtazione delle rendite della proprietà non coltivatrice, l’abbandono delle terre meno fertili e meno accessibili e la formazione, dovuta all’investimento dei "capitali americani", di una piccola proprietà contadina. Queste cause modificatrici compensavano i mali, i pericoli e i travagli dell’emigrazione . Già il 21 novembre del 1896 parlando a Portici sulla "Nuova fase dell’emigrazione italiana" Nitti riferiva che da più parti l’emigrazione italiana era considerata una perdita nazionale, ed economisti facevano complicati calcoli per determinare la perdita di capitale, in termini di persone, subita dal Paese a causa dell’emigrazione. Ma Nitti faceva notare l’emigrazione non solo non è un male " è una necessità ineluttabile... è una scuola potente, è l’unica, la grande salvezza di un paese privo di risorse e ferace di uomini... Questi milioni d’ignoti, che solcavano e solcano l’oceano infido, hanno tracciato le vie dell’avvenire." (54). L’emigrazione percepita per molti anni come causa di debolezza dev’essere orientata e diretta per lo sviluppo nazionale (55). Il governo ha considerato l’emigrazione dal punto di vista della pubblica sicurezza, ma ha trascurato l’aspetto economico e sociale dell’emigrazione, i mali denunciati e verificati "sono un nulla di fronte al grandissimo bene che n’è venuto alla Nazione" (56). Alla domanda se l’emigrazione dev’essere ostacolata fa notare che la maggioranza degli intervistati ha espresso un parere negativo. Fermo nella sua convinzione che la ricerca empirica avvicinasse alla verità e che i giudizi scaturiscono dai fatti , afferma: " Il mondo è libero, diceva il povero contadino di Lagonegro. Ed è la libertà che, determinando questo immane esodo di uomini è stata insieme ragione di duro tormento e di profonda rinnovazione" (57). Concorde con gli studi divulgati dal Nitti sull’emigrazione, per taluni aspetti, è l’argomentazione di Ettore Ciccotti, primo deputato socialista del Mezzogiorno, che espresse le sue considerazioni in "L’Emigrazione" (1912). Percepita come un fenomeno "centrale della vita meridionale"(58) l’emigrazione, vista da Ciccotti, appare come "sciopero immenso, colossale..." (59). Ciccotti parlava di "…piccoli artigiani e contadini soprattutto, i quali, per sentimento proprio e nella considerazione altrui, si ritenevano quasi legati alla gleba e che non concepivano, si può dire, un orizzonte più largo di quello delimitato e chiuso dai monti onde era circoscritto il proprio Comune; improvvisamente...si son dati a varcare il mare ignoto, verso paesi ignoti, senza una visione, comunque concreta, di ciò che potessero o dovessero fare…" (60). Nell’esame dell’emigrazione tende a focalizzare la sua attenzione sulla condizione dei contadini: "...a spingerli verso quell’ignoto, avevano concorso, insieme, la scarsa produttività del suolo... le ricorrenti crisi agrarie, i sistemi tributari gravi pel peso...gli intollerabili sistemi amministrativi...compenetrati di usi ed abusi feudali; la malaria, e forse anche l’inconsapevole spirito d’imitazione e di attrazione..."(61). L’emigrazione appare un fenomeno sociale che accanto ai suoi lati sfavorevoli, rappresentati principalmente dal fatto che il paese d’origine non si libera solo delle forze eccedenti l’esubero della forza lavoro, ma con l’emigrazione viene privato delle energie migliori suscettibili di essere impiegate in patria, testimonianza ne sono "le lunghe distese di campi incolti e abbandonati" (62). Per quanto riguarda l’effetto economico Ciccotti riconosceva all’emigrazione un effetto positivo in quanto canale finanziario che diveniva strumento di lotta all’usura, e degli effetti negativi in quanto il rialzo dei salari e il conseguente miglioramento di vita limita "l’impulso e la forza a quella reazione contro l’ambiente arretrato che più di tutto potrebbero costringerlo a rinnovarsi"(63); le stesse decantate rimesse, sulle quali viene fatto affidamento per lo sviluppo produttivo "non servono in buona parte che ad alimentare le donne, i minorenni, i vecchi, tutti gli elementi improduttivi della famiglia rimasti in Italia e resi inattivi dall’assenza del capo famiglia; o vanno semplicemente a ingrossare quel fondo delle casse di risparmio postali" (64). Altri effetti negativi venivano identificati nelle deplorevoli condizioni di vita degli emigranti nei paesi esteri, condizioni che compromettevano irreversibilmente il decoro nazionale; le loro condizioni di vita li posizionavano nelle stato inferiore della popolazione, esercitando i lavori più umili e faticosi (65). Gli emigrati si recavano nei paesi esteri con attitudini professionali tali da non permettere di svolgere ruoli prestigiosi e remunerativi, così restavano collocati in status marginali che non permettevano l’integrazione sociale e di conseguenza il miglioramento degli atteggiamenti civili e culturali dovuti al contatto con una società industrializzata e ricca (66). Malgrado la presenza di questi aspetti compromettenti del decoro nazionale, dei quali è mancata al governo la presa coscienza e di conseguenza non adeguata è stata l’azione legislativa, lo Stato non deve vietare l’emigrazione ma deve far sì che "questa emigrazione si realizzi come un fenomeno fisiologico e non patologico; riversandosi all’estero quando non trovasse un impiego utile in patria o quando lo trovasse più utile" (67). Lo Stato non deve vietare l’emigrazione ma deve propendere per la sua limitazione, favorendo in Patria l’elevazione del tenore di vita tramite lo sviluppo della produzione e il progresso civile stimolato dall’istruzione generale e tecnica. Purtroppo lo scarso interesse delle classi dirigenti e dello Stato fanno restare l’emigrazione "uno sforzo puramente impulsivo, disordinato, puramente individuale, con cui il popolo più umile...abbandonato a sé stesso ha cercato - sotto forma di adattamento divergente - un rimedio" (68). Nonostante le degenerazioni negative del fenomeno, lo Stato, a parere di Ciccotti non aveva il diritto di negare l’emigrazione, ma semmai, in concordanza a quanto affermava Nitti, il dovere di sostenere ed orientare gli emigranti. La polemica sull’emigrazione che aveva assunto in Nitti toni particolarmente drammatici, proprio per l’assenza di posizioni pietistiche e per il suo stringato realismo, la sua discussione esplicata attraverso studi che si avvalsero dell’analisi dei fatti e furono elaborati alla luce dei dati economici partendo da premesse acquisite nel corso della polemica post-unitaria, proiettandole nel contesto unitario dello Stato italiano e riproponendole su un quadro organico dello sviluppo economico, sociale e civile del Paese: il produttivismo (69) immerso in una struttura di mercato liberale, costituì la base e il sostegno concettuale di molta parte delle analisi sull’emigrazione. Concezione che diventa un vero e proprio elemento ideologico caratterizzante e riceve continuità e sviluppo nella rivista "La Basilicata nel mondo", fondata e diretta da Giovanni Riviello e ispirata al pensiero dello statista lucano. I riferimenti a Nitti soprattutto nel primo numero sono ricorrenti. "La Basilicata nel mondo" pubblicata (dal 1924 al 1927) in un periodo storico di transizione fra il declino della democrazia e l’ascesa del regime fascista, offriva una determinante documentazione dei rapporti fra gli emigranti lucani e l’America che li ospitava. Nacque come tentativo di diffondere una identità regionale produttiva: il lavoro dei lucani all’estero, specie negli Stati Uniti d’America. Vengono riportati, a volte quasi mitizzati, il protagonismo di imprenditori, di finanzieri, artigiani e braccianti, le significative vicende americane degli imprenditori edili e dei banchieri lucani; valorizzando la loro intelligenza, la tenacia, la perseveranza, rimaste o riuscite improduttive nella loro terra nativa povera e inospitale. Contrapponeva all’immagine dei lucani emigranti poveri ed incolti, una immagine che evidenziava e metteva in risalto la capacità imprenditoriale (70). L’emigrazione è considerata ricerca di benessere economico, ma un benessere individuale che poco influisce nella determinazione del benessere sociale e territoriale della Regione d'emigrazione ed è quasi dannosa per lo sviluppo sociale, non consentendo il mutamento che scaturisce dalla rivendicazione di condizioni di vita migliori che con la contestazione portano alla demolizione di strutture lavorative preesistenti e alla conseguente istituzione di rapporti nuovi, i quali richiedendo l’adeguamento lavorativo alle nuove situazioni crea la coscienza del rispetto dei propri diritti (71). Il fulcro della rivista era costituito dalla vita degli emigranti lucani nelle Americhe: il mondo che lavorava, produceva e teneva alta l’immagine della Regione all’estero. G. Riviello tese a fare della rivista l’organo di questa emigrazione, divulgando interessi e idealità di quella emigrazione, contro le frequenti ed esasperate denigrazioni che gli emigrati erano costretti a subire dalle teoriche demagogie del tempo. Precisa che il movimento emigratorio si può distinguere in due fasi: nella prima fase emigrano contadini analfabeti con una gran forza di volontà e disponibilità al lavoro, ma incapaci di adattarsi alla civiltà e all’industria americana; nella seconda fase si distinguono persone capaci di adattarsi all’ambiente di ricezione e professionalmente preparate che con la loro genialità e il loro spirito d’iniziativa danno un contributo proficuo al decoro Regionale e al paese che li ospita (72). G. Riviello attraverso i suoi articoli cerca le motivazioni che spingono i lucani ad emigrare, dalle sue considerazioni emerge che l’emigrazione non è giustificata da condizioni di miseria esasperata e tantomeno da ragioni demografiche essendo il territorio a bassa densità di abitanti (73), ognuno avrebbe potuto trovare il modo di sostenersi in patria, ma l’aspirazione a migliorare le proprie condizioni di vita e lo spirito d’imitazione sospingeva schiere sempre più numerose verso le Americhe, divenendo una necessità di vita: " è necessario emigrare per conquistare l’agiatezza o la ricchezza" (74). Dopo tre anni di pubblicazioni, le considerazioni sull’emigrazione del direttore della rivista dimostravano che l’ispirazione nittiana, presente alla fondazione della rivista, si andavano dissolvendo. "La Basilicata nel mondo" cessò le sue pubblicazioni nel 1927. L’epoca delle denunce dei meridionalisti: dalle "Lettere Meridionali" di P. Villari, alle pagine di G. Fortunato, di F.S. Nitti, di E. Ciccotti, offrono della Basilicata un quadro storico che si profila con chiarezza delineando sempre maggiore consapevolezza delle reali condizioni del Mezzogiorno ed approda in pieno neorealismo e dopo la II° guerra mondiale, al "Cristo si e’ fermato ad Eboli" di C. Levi. Un libro pubblicato nel 1945, ma riferito al periodo di confino in Basilicata (1935-1936). Levi raccontando l’esperienza del suo relazionarsi con un civiltà diversa, "altra" rispetto alla sua: quella dei contadini del Mezzogiorno, sembra voler suggerire la chiave dei problemi economici, politici e sociali del Meridione. Descrive con appassionato interesse il volgere della vita, suggellata da una deprimente e inumana miseria, nei paesi Lucani in cui è confinato: Grassano e Gagliano. Osserva che la vita politica non riesce a trovare spazio, si fa ogni giorno più lontana, cade in oblio dinanzi alle esigenze della sussistenza, sempre più difficile a soddisfare date le estreme condizioni di povertà e le distanze con lo Stato e dallo Stato si fanno sempre più grandi e incolmabili, lo Stato viene percepito come un male inevitabile e ad esso si reagisce con rassegnazione e soprattutto con incomprensione visto che lo stato si esprime con provvedimenti non confacenti e poco utili al miglioramento della vita dei contadini (75). Sentito e profondo è il problema dell’emigrazione: "Gagliano ha milleduecento abitanti, in America ci sono duemila gaglianesi. Grassano ne ha cinquemila e numero quasi uguale di grassanesi sono negli Stati Uniti. In paese ci restano molte più donne che uomini" (76). Gravosi sono gli effetti dell’emigrazione in termini di destrutturazione sociale e di riflessi sulla morale: "…Gli uomini mancano e il paese appartiene alle donne. Una buona parte delle spose hanno il marito in America. Quello scrive il primo anno, scrive anche il secondo, poi non se ne sa più nulla, forse si fa un’altra famiglia laggiù, certo scompare per sempre e non torna più. La moglie lo aspetta il primo anno, lo aspetta il secondo, poi si presenta un’occasione e nasce un bambino. Gran parte dei figli sono illegittimi: l’autorità delle madri è sovrana" (77). La speranza del riscatto e d’integrazione sociale è rappresentata dall’America: "L’altro mondo è l’America…Non Roma o Napoli, ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini senza Stato potessero averne una" (78). Levi riferisce che i contadini giunti in America continuano a fare vita grama per risparmiare la maggior quantità di danaro possibile, poi spinti dalla nostalgia di rivedere parenti e amici rientrano in Patria col proposito di soffermarsi poco, ma spesso si presenta l’occasione di acquisto di un pezzo di terra, e la prospettiva di cambiare status li spinge ad acquistare il terreno, fermarsi e sposarsi nel paese natio. L’investimento porta via tutti i risparmi, la terra produce pochissimo e le tasse sono esose e così in breve tempo si ritorna nelle misere condizioni degli anni precedenti alla partenza. Con la miseria torna l’atavica rassegnazione amareggiata dal rimpianto di un paradiso perduto: "…questi americani non si distinguono più in nulla da tutti gli altri contadini…Gagliano è piena di questi emigranti ritornati: il giorno del ritorno è considerato da loro tutti un giorno di disgrazia" (79). Scarso è il progresso portato dall’emigrazione in questi luoghi e la civiltà contadina resta immobile nei suoi retaggi di povertà assoluta, ma la rivolta è latente e temibile ne è la ferocia prevista: "La civiltà contadina è una civiltà senza Stato e senza esercito…sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale si perpetuerà…Il brigantaggio, guerra contadina ne è la prova e quello del secolo scorso non sarà l’ultimo…" (80). Le leggi speciali, le opere pubbliche, le bonifiche non avevano risolto il problema Meridionale; lo scritto di Levi, ispirato dal diretto contatto con la miseria più profonda, denunciava in tutta la sua nudità la parte dolente di un’Italia ancora immersa nell’ingiustizia sociale e sottoposta all’indifferenza politica. Il fascismo, attraverso i discorsi del Duce, aveva esaltato il primato della Lucania ma gli interventi pratici non avevano contribuito a modificarne le reali condizioni di esasperata miseria:" La Lucania ha un primato che la mette alla testa di tutte le regioni italiane: il primato della fecondità, la quale è la giustificazione demografica e quindi storica dell’Impero. I popoli dalle culle vuote non possono conquistare un Impero… Hanno diritto all’Impero i popoli fecondi , quelli che hanno l’orgoglio e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra… I problemi che interessano la vostra terra sono già conosciuti. Si è fin troppo scritto e poco operato… Molto si è fatto durante questi 15 anni, ma la realtà vuole che si aggiunga che moltissimo resta ancora da fare e sarà fatto" (81). La guerra d’Etiopia rese di trascurabile importanza il problema del Mezzogiorno, e le sue condizioni restarono immutate. Ma Levi propone una soluzione: "Il problema meridionale si risolverà… se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno… ma soltanto con l’opera di tutta l’Italia, e il suo radicale rinnovamento"(82). La civiltà contadina descritta da Levi evidenziava e poneva in risalto una condizione contadina la cui storia convergeva in una situazione di disperata miseria, identificata, attraverso la Questione Meridionale, nelle formulazioni di marginalità scaturite dall’isolamento, dalla malaria, dalla fame, dalla lunga permanenza in condizioni di miseria. Il libro di Levi diviene espressione di un meridionalismo in cui la Basilicata sembrava simbolizzare la nozione di Mezzogiorno arretrato e diveniva, quindi, metafora dell’intero Mezzogiorno. I dati demografici registrati ne facevano, in un certo senso, la Regione "tipica" del Mezzogiorno: essa aveva un’alta percentuale di popolazione occupata in agricoltura ed era profondamente interessata, tra il 1871 ed il 1936, alle ondate emigratorie, l’emigrazione assorbiva un’alta percentuale di popolazione e nonostante gli elevati tassi di natalità interi paesi si spopolavano. Il "Cristo si è fermato ad Eboli" esprimeva all’opinione pubblica la reticente immagine di una realtà che risultava essere un’interferenza non funzionale allo sviluppo nazionale e tendeva a risvegliare energie latenti che non si rassegnavano ad essere consegnate ad un fatalismo non gradito: il determinismo geografico. Si prendeva coscienza dell’azione che doveva rendere attori non spettatori delle proprie condizioni. Era una presa coscienza che stimolava all’azione sostenuta dalle inchieste e dagli studi che nonostante la loro prodigalità nel denunciare e annunciare soluzioni poco avevano contribuito a risolvere il problema. Le proposte dei meridionalisti e le esigenze di giustizia sociale delle masse popolari furono infatti a lungo impedite dalle condizioni politiche prevalse durante il fascismo. Anche se fu in questo periodo che avanzava l’ipotesi di un intervento per la Bonifica e per il risanamento delle zone incolte e malariche, quasi a voler realizzare i vecchi programmi di ispirazione fortunatiana e nittiana e a voler riconoscere il persistere dei mali individuati e denunciati dai primi studiosi della questione meridionale.
di: MINA FALVELLA